la Repubblica, 20 giugno 2018
L’evoluzione darwiniana delle fiabe
Se è vero che ogni epoca sceglie le sue fiabe, noi quali sceglieremo? Perché si dà il caso che per ciascuna Biancaneve divenuta famosa ce ne siano almeno dieci cadute nell’oblio, pronte a essere riscoperte. Si tratta, per così dire, di liberarci da un certo timore reverenziale, avendo il coraggio di riconoscere che non sempre le greatest-hits coincidono con il meglio del repertorio fiabesco, e vi sono fior di gioielli che attendono nell’ombra. D’altra parte è cosa nota che per molto tempo il gusto popolare ha prediletto i racconti moralmente più edificanti, se possibile privi di eccessive nefandezze, meglio ancora se pervasi di un alone romantico che stemperasse il necessario contrasto cromatico.
Ripeto: è il frutto della selezione operata da ogni epoca in termini di gusto, per cui quando si trattò di enucleare un racconto dalle Metamorfosi di Apuleio, si scelse fra tante scabrosità di riscrivere solo Amore e Psiche, trasformata nel Settecento da madame De Villeneuve in quella che oggi conosciamo come La bella e la bestia. E non è un caso che proprio per questa natura mèlo, le fiabe oggi più famose abbiano assunto quasi tutte le sembianze di cartoni animati: da La sirenetta a La bella addormentata nel bosco, si può dire che Andersen e colleghi fossero soggettisti inconsapevoli della Disney. Talvolta si verifica perfino il triste caso di boom cinematografici che nessuno sa esser tratti da splendide fiabe prive ahimè di titolo altisonante, il cui tessuto narrativo è stato a dir poco martirizzato (si pensi alla bellissima La regina delle nevi di Andersen, riassemblata da Disney nel suo record d’incassi Frozen senza che vi compaia traccia dello specchio fatato in cui si amplifica tutto il male del mondo). Insomma: il destino della fiaba perfetta sembrerebbe oggi il botteghino.
Anche se poi, a ben guardare, la conversione in cartoon è stato solo il più recente approdo di un secolare trasformarsi di questi antichissimi racconti, letteralmente passati di penna in penna. Basta pensare a Cenerentola, il cui embrione narrativo si trova addirittura in Erodoto, riportato come una storia egiziana della Ventiseiesima Dinastia, dopodiché la ritroviamo in mille varianti, da quella cinese a quella barocca di Giambattista Basile, per approdare infine a Charles Perrault e ai Fratelli Grimm. È indubbio che in questo caso l’assenza di violenze conclamate e la presenza di un consolatorio plot amoroso abbiano decisamente contribuito al successo popolare della fiaba, spiegando al contempo la minor presa di altri racconti.
Immaginereste mai, ad esempio, un cartone animato Disney tratto da Hänsel e Gretel, con tutto quel proliferare di bambini reclusi, minacce d’infanticidio, cannibalismi stregoneschi e megere carbonizzate? Eppure, quando i Grimm misero per scritto la fiaba, essa era una delle più diffuse nella Germania del tempo, insieme a molte altre popolate di visioni orripilanti: spicca fra tutte Il lupo e i capretti, in cui assistiamo al lauto pranzo del primo con le carni dei sette cuccioli di mamma capra, salvo poi essere da lei squartato e ricucito con sette macigni nello stomaco. Meglio ancora azzarda ilbuon Andersen ne La giovinetta che calpestò il pane, dove una boriosa ragazzina finisce addirittura per disprezzare sua madre, e ne paga il conto con un soggiorno all’inferno fra giganteschi ragni e schiere di dannati. Oppure, per concludere il catalogo, c’è sempre la macabra Barbablù di Charles Perrault, il cui protagonista, spietato uxoricida, ispirò nome e gesta a svariati serial-killer. Direte voi: era pura barbarie raccontare a dei bambini atrocità come queste. Ma con tutto che il sottotitolo trattenemiento de’ peccerille apposto da Basile alle sue novelle non era da prendersi alla lettera, noi non mettiamo forse in mano alla prole videogame in cui mostri bavosi a dieci teste vengono trucidati col massimo realismo?
Non è questa una discutibile (e sguaiata) forma di avvicinamento all’esperienza traumatica del dolore, della violenza, dello scontro vitale? Bene: secoli fa, in assenza di schermi e monitor, era la fiaba a fungere da metafora per vaccinare i piccoli ai mali del mondo, con la sostanziale differenza che l’oralità implica almeno il diaframma dell’immaginazione, laddove la play-station squaderna lo show della violenza con migliaia di pixel.
Senza poi contare che la fiaba manteneva sempre una sua ineluttabilità, quasi sacra, per cui il senso complessivo del racconto si apprezzava fino all’ultima sillaba; viceversa, l’odioso mantra dell’interattivo fa sì che il lupo di Cappuccetto Rosso non sia più l’antagonista necessario di una trama, ma semplicemente un’entità da sopprimere subito a colpi di virtuale mitraglia. Stiamo attenti dunque a giudicare le fiabe del passato, sebbene talvolta ci appaiano di una durezza inconcepibile: avete mai letto quelle scritte da Oscar Wilde per i suoi bambini? Oltre a essere spesso prive di lieto fine, sembrano un manuale preparatorio ai più infami baratri umani (vi suggerisco la splendida Il compleanno dell’infanta in cui un nano deforme muore di dolore dopo aver scoperto se stesso in uno specchio). Ma molte sarebbero le fiabe da rivalutare, molte delle quali illuminanti su certi nervi scoperti di questo tempo: leggetevi Enrichetto dal ciuffo e vi sembrerà che Perrault a fine Seicento pensasse proprio alla nostra ossessione per l’aspetto fisico, oppure Il guardiano di maiali di Andersen, apologo inquietante sul dilagare mediatico d’ogni sorta di immondizia. Se infine amate le tinte forti, non tralasciate per niente al mondo la diabolica Il ginepro raccolta dai Fratelli Grimm: vi troverete alle prese con una matrigna campionessa di angherie e un indifeso ragazzino che finisce servito in salamoia nel piatto di suo padre, per poi trasformarsi in un usignolo-killer che canticchia ritornelli lugubri e uccide in picchiata come i corvi di Hitchcock. Uno scenario degno del migliore Tim Burton: chissà, magari gli varrebbe un Oscar.