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 2018  giugno 20 Mercoledì calendario

La letteratura suona il rock

Cosa hanno in comune Rabindranath Tagore e Italo Calvino, Lorenzo de’ Medici e Guantanamera? Nulla, direte voi. Sbagliato. Sono la prova di un millenario rapporto di amore che solca il tempo e i continenti: quello tra la poesia e la canzone. Fino ad allungarsi, con qualche scandalo dei sacri custodi della tradizione, alla canzonetta.
Certo, cambiano i secoli, i climi, le sensibilità, gli strumenti, le lingue. Il bisogno di comunicare il dolore e la passione e l’odio e l’allegria con modalità diverse, però, resta. Lo testimonia un libro appena uscito di Maurizio Stefanini e Marco Zoppas, Da Omero al rock. Quando la letteratura incontra la canzone, edito da Il Palindromo. Uno zibaldone ricco di curiosità, dettagli, paragoni eccentrici, note inattese. Che parte dal Nobel a Bob Dylan, prova che «il rock è entrato nel salotto buono della Letteratura» («stupisce semmai la lentezza con cui a Stoccolma si siano accorti della portata di un avvenimento che ormai risale a cinquant’anni fa»), e arriva al Teorico della Spazzatura inventato da Don DeLillo: «Tutto è collegato». Tutto.
C’è un filo che unisce il Magnifico mediceo, che avvertì il bisogno di esprimere la gioia di vivere e insieme le ombre del tempo che scorre componendo il celeberrimo Trionfo di Bacco e Arianna («Quant’è bella giovinezza / Che si fugge tuttavia / chi vuol esser lieto, sia: / di doman non v’è certezza…») a quella canzone simbolo della gioia di vivere cubana? Sì, c’è. 
Improvvisata probabilmente a una festa popolare nel 1929 da Herminio García «Diablo» Wilson, seccato per esser stato (giustamente) bacchettato da una «guajira» indiana («Eh! E che si è messa in testa ’sta burina di Guantánamo!»), rivendicata in tribunale da Joselito Fernández che l’aveva portata al successo radio, Guantanamera deve però gran parte della fama planetaria al recupero e all’inserimento delle quartine scritte mezzo secolo prima in Versos sencillos da José Martí: «Yo soy un hombre sincero / De donde crece la palma / Y antes de morirme quiero / Echar mis versos del alma…». Versi struggenti, riletti molti anni dopo da Sergio Endrigo: «Coltivo una rosa bianca / In luglio come in gennaio / Per l’amico sincero / Che mi dà la sua mano franca». 
Sarebbe stato orgoglioso, il grande poeta, scrittore e irredentista sudamericano di finire in un cha-cha-cha? Forse sì. Certo fu più solenne il destino di Rabindranath Tagore, Nobel per la letteratura 1913, drammaturgo, poeta e filosofo bengalese che detiene un primato insuperabile: è l’unico autore degli inni di due Paesi diversi. «La prima delle cinque strofe del suo poema Dispensatore del destino dell’India è divenuta infatti nel 1950 l’inno nazionale dell’India Jana Gana Mana». E nel 1972 «i primi dieci versi della sua canzone Amar Shonar Bangla («Mio Bengala dorato») furono adottati come inno nazionale del Bangladesh». 
Tagore no, non suonava né conosceva il pentagramma. Ma parole e musica, scrivono i due autori, si unirono nei tempi più antichi. Anzi, «non esiste in nessuna società preistorica una poesia che sia nata senza musica; la letteratura non è scrittura bensì parola, e come tale può essere cantata. In realtà, prima dell’affermarsi della scrittura, senza un supporto musicale era quasi impossibile memorizzare i versi. Poi la scrittura si è diffusa e la gente ha imparato a leggere». In questo processo «i poemi di Omero e le tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide sono stati conservati senza le melodie che li accompagnavano, e al di là del testo in prosa è comunque nato anche per la poesia un canone in cui la musicalità della parola può affermarsi senza il supporto del canto». Senza. 
Giù giù lungo i secoli però, la volontà di unire testi e musica, volta per volta adattati al momento, è rimasta. Si pensi al Salmo 137, il lamento degli ebrei deportati a Babilonia dopo la caduta di Gerusalemme del 587 a.C. Poco usato nella liturgia in generale per il violentissimo finale («Beato chi afferrerà i tuoi piccoli / e li sbatterà contro la pietra») il grido di libertà ha però ispirato musicisti e movimenti politici di tutti i tipi. Dal librettista Temistocle Solera che fornì a Giuseppe Verdi i versi per quel coro del Nabucco che tocca il cuore degli italiani fino al gruppo giamaicano The Melodians che evocando la tratta degli schiavi compose Rivers of Babylon, portata al successo internazionale dal gruppo Boney M. Un reggae. Amatissimo da Bob Marley.
Tra centinaia di protagonisti spiccano i grandi che composero canzoni come parolieri. Italo Calvino, ad esempio, che con la musica di Sergio Liberovici scrisse capolavori come Oltre il ponte («Avevamo vent’anni e oltre il ponte / oltre il ponte ch’è in mano nemica / vedevam l’altra riva, la vita / tutto il bene del mondo oltre il ponte…») o Canzone triste. Leonard Cohen che fu salutato al debutto da scrittore, prima di passare alle canzoni, come «il nuovo James Joyce canadese». Dario Fo, che proprio mettendo insieme parole e musica vinse il Nobel. O Gabriele d’Annunzio che nel 1907 scrisse in napoletano A vucchella («Méh, dammillo, dammillo, / è comm’a na rusella… / dammillo nu vasillo, / dammillo, Cannetella!») e nel 1911 «il libretto di Le martyre de Saint Sébastien: misteroin cinque atti più un prologo per musica di Claude Debussy». O Vinícius de Moraes che era ghiotto di vita (nove mogli!) e decise di comporre e cantare la sua prima canzone vent’anni dopo aver esordito come poeta e in coincidenza col successo teatrale di Orfeu da Conceição, che avrebbe poi vinto l’Oscar come «Orfeo negro». E poi ancora Pablo Neruda e Jorge Luis Borges e Pier Paolo Pasolini e Bertold Brecht, le cui canzoni bellissime sarebbero state eseguite in Italia da Milva.
Insomma, ammiccano Maurizio Stefanini e Marco Zoppas, «non perderemo tempo a domandarci se una poesia, una volta messa in musica, rimane una poesia. Semmai ribalteremo la prospettiva e ci chiederemo se, da ora in poi, una poesia che non può essere musicata debba ancora essere considerata una poesia».