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 2018  giugno 20 Mercoledì calendario

Se Trump lascia il Pacifico in mano alla Cina

Le recenti sanzioni commerciali contro la Cina, che chiudono per il momento la fase di accordi avviata in aprile con la visita di Xi Jinping in Florida, e il summit di Singapore con Kim Jong-un dimostrano che il Pivot to Asia è ancora inderogabile per l’America. Anche se la strategia dell’attuale amministrazione è ben lontana dalla politica organica nell’area del Pacifico che Obama intendeva realizzare. 
In un discorso tenuto a Tokyo, il 14 novembre 2009, Obama dichiarò: «In quanto nazione dell’Asia-Pacifico, gli Stati Uniti si attendono di essere coinvolti nella discussione che plasma il futuro di questa regione e di partecipare pienamente nelle organizzazioni idonee». Egli si era messo così nel solco di George W. Bush che, preoccupato dalla impetuosa crescita della Cina, aveva avviato i negoziati del Tpp, nel 2008, insieme ad alcuni Stati dell’area. Ma Trump, appena insediatosi alla Casa Bianca, uscì dall’accordo.
D’altronde, è nel Far East che appaiono evidenti le conseguenze più profonde e contradditorie delle interdipendenze economiche fra Washington e Pechino. Può darsi che le offensive di Trump contro le potenze rivali quanto nei confronti degli alleati, siano una ruvida tattica negoziale piuttosto che una dichiarazione di guerra commerciale in piena regola. Il mercato americano, per la sua vastità e le ottime performance, può trovare al suo interno le risorse necessarie per far fronte a una fase protezionistica. Ma tutto ciò, come già accadde negli anni Trenta, rischia non solo di far ricadere i costi innanzitutto sugli stessi americani quanto di frenare e indebolire l’economia mondiale a scapito innanzitutto dell’Occidente. 
A livello economico, le sanzioni possono infatti essere un boomerang. Perché il 43% dell’export di Pechino e, in particolare, il 77% del suo export Ict è costituito da manufatti prodotti in Cina da multinazionali straniere. Per parte sua, la Cina ribatte colpo su colpo. Le sue concessioni sono meno ampie di quanto appaia. Pechino ha aperto il suo mercato agli investimenti esteri in settori dove ormai ha acquisito posizioni dominanti difficilmente scalzabili. 
Ma i costi maggiori saranno geopolitici. Per frenare la Cina Trump avrebbe dovuto rafforzare i legami con gli alleati in Europa e nel Pacifico. Invece egli ha scelto di esaltare le pulsioni elettorali dell’“americano dimenticato” rischiando un tragico ritorno alle condizioni di crisi degli anni Trenta. Poiché non c’è logica economica né politica nelle decisioni di Trump, ma mero azzardo elettorale, egli sta agevolando in pratica lo spostamento degli equilibri a favore di Pechino. 
Per esibire l’accordo sottoscritto a Singapore con Kim Jong-un, il più esile che ci si potesse aspettare per inconsistenza degli impegni nordcoreani sulla denuclearizzazione e sulla sua verificabilità, Trump ha annunciato misure che potrebbero incrinare l’architettura di sicurezza a guida americana che ha dato per decenni stabilità all’Asia. 
Quanto al distacco di Washington dall’Europa, cifra del riemergente isolazionismo Usa, si sta compiendo in uno scenario internazionale stravolto dal ruolo di potenza competitiva e con aspirazioni egemoniche di Pechino. Tanto più che l’Europa è in affanno e rischia di destrutturarsi sulla questione divisiva dei migranti mentre la sua economia rallenta. 
Peraltro il recente meeting della Shanghai Cooperation Organisation, che ha ospitato anche l’Iran e la Turchia, ha mostrato al mondo quale sia la potenziale forza di una collaborazione alternativa al G7 fra Cina, Russia, India, Pakistan e alcuni Stati dell’Asia Centrale. 
È in questo complesso scenario che una Corea del Nord più desiderosa che in passato di trovare un’intesa sul suo arsenale nucleare ha potuto ottenere garanzie per la sopravvivenza del regime e promesse di aiuti economici per il suo sviluppo.
Non è invece ancora chiaro che cosa abbiano ottenuto gli Usa e i loro alleati, Giappone e Corea del Sud in particolare, che non appaiono tutelati da un accordo che neppure ha chiarito il concetto di denuclearizzazione. 
Così, la mancanza di visione strategica dell’amministrazione americana rischia di spostare stabilmente gli equilibri nel Pacifico a favore di Pechino. L’esito del summit di Singapore è infatti quello ricercato con il proprio operato dalla Cina. La guerra commerciale, dopo l’improvvida uscita dal Tpp, se proseguirà, indebolirà l’influenza Usa nella regione. Tuttavia a uscirne peggio potrebbero essere innanzitutto gli alleati di Washington, Europa compresa.