il Giornale, 20 giugno 2018
Intervista a Enrico Brizzi tra Bologna, anni Ottanta, violenza e amore»
A ventiquattro anni dal bestseller Jack Frusciante è uscito dal gruppo, Enrico Brizzi torna nella sua Bologna, per raccontare una storia di adolescenti. Tu che sei di me la miglior parte (Mondadori, pagg. 546, euro 20) è la storia di Tommy Bandiera, orfano di padre, che cresce negli anni Ottanta con i suoi amici di quartiere Athos e Selva, il «peggiore amico» Raul e il primo amore Ester. «È un prequel, per certi versi: la storia inizia nell’82 e finisce nel ’92, l’anno in cui è ambientato Jack Frusciante».
Enrico Brizzi, come è nata l’idea del libro?
«Credo che l’idea fosse sottotraccia da tempo. Sono affascinato dai romanzi di formazione, che raccontano come, da bambini, si diventa grandi. Qui il fattore scatenante è stato il dato biografico».
Quale dato?
«Allora dovevo compiere vent’anni, oggi ne ho 43 e, per la prima volta, due delle mie quattro figlie vanno alle superiori. È stato quasi inevitabile il confronto fra la loro adolescenza e la Bologna della loro adolescenza, rispetto a quella della mia, molto diversa».
Solo questo?
«Molte volte mi hanno chiesto un’altra storia di adolescenti. Credo che, dopo 24 anni, sia passato abbastanza tempo per avere il distacco giusto da quella esperienza choc, da esordiente. Ma non avrei mai potuto permettermi di raccontare i ragazzi del 2018, perché non ne so abbastanza».
Sugli anni Ottanta invece...
«Eh dai, per gli anni ’80 e ’90 la memoria è ancora buona. Ricordo bene la temperatura, il linguaggio, che cosa si prova nella stagione delle prime volte».
Come ha costruito il linguaggio?
«L’obiettivo era una lingua abbastanza libera da influenze gergali nella narrazione, e assai gergale nei dialoghi. Gergo locale».
E Bologna?
«Per me era fatale, tornando a quegli anni, ambientare lì la storia, perché all’epoca era l’unica realtà che conoscessi».
Ci sono rimandi a Jack Frusciante: i ragazzi, il liceo...
«Qualche cameo. Non volevo mettere il vecchio Alex, Adelaide e Martino al centro del libro, sarebbe stato troppo paraculo; ma mi sono divertito a farli apparire sullo sfondo, ogni tanto, come a dire: questa è un’altra storia possibile, da quello stesso alveo. Una storia parallela».
Però è ambientata nella decade precedente: gli anni ’80. Che cosa cambia?
«Il ’92 fu l’anno della svolta nella storia d’Italia. Negli anni ’80 si viveva nella stessa situazione politica immobile in cui avevano vissuto per quarant’anni i nostri genitori. Un ciclo eterno».
E nel quotidiano?
«Se penso agli anni ’80 penso all’infanzia, al cortile, all’Italia popolare, in cui i ragazzini erano tantissimi. Chi ha la mia età è cresciuto in mezzo a una valanga di coetanei, cosa che non posso dire delle mie figlie, anche se io ho dato il mio contributo...».
Quanto ha impiegato a scrivere il libro?
«Circa due anni. Non mi era mai successo prima, ma l’ho riscritto tre volte».
Cioè è le terza versione?
«Sì. La prima era di mille pagine. Alla fine mi sono detto: no, è impossibile, è una seduta di autoanalisi. Così l’ho riscritto da capo. La seconda stesura però non mi convinceva, così ne ho scritta una terza, la sintesi».
È un librone, quasi 550 pagine.
«In un Paese terrorizzato dai libri sopra le duecento pagine... Però, mentre scrivi, devi fregartene di quello che diranno le persone. Alla fine è stata una esperienza di autocontrollo. E poi, all’ultima pagina della terza versione, è successo quello che mi succede sempre, quando un libro è finito davvero».
Che cosa?
«Mi sono messo a piangere. I personaggi sono come figli, che vedi partire per un lungo viaggio».
Ci sono episodi di violenza molto forte.
«Da ragazzo non avevo questa percezione ma, ripensandoci, mi sono reso conto che vivevamo in una realtà violenta. Erano anni belli selvatici».
La tortura al ragazzo gay ricorda alcuni episodi di oggi?
«Tra maschi, la violenza era quasi connaturata all’età. Chi era diverso, o minoritario, era sottoposto a tormenti troppo brutti per raccontarli, al punto da essere rimossi. Ma a questa età bisogna essere onesti e riconoscere che ciascuno è stato vittima, e anche carnefice».
Una liberazione?
«È stato catartico raccontare certi episodi in cui il narratore non è l’eroe solitario che combatte, bensì un giovane stronzo che, per seguire il gruppo, mette sotto gli altri, in modo doloroso».
Tommy non esce praticamente mai dal gruppo?
«È vero. Ho voluto raccontare la lunga stagione in cui il terrore più grande è restare da solo. Imiti quello che vedi, e non ti importa che il maestro sia buono o cattivo: l’importante è non fare figuracce, e la misura, in questo senso, è il gruppo di riferimento».
Qual è il cuore del libro?
«L’assenza della figura paterna: Tommy è orfano, a causa di un incidente; Ester è cresciuta da una madre single, per scelta; Raul ha un padre, che però se ne frega di lui. Se cresci senza padre, sei senza legge: la tua legge devi fartela da solo e crescere è più difficile. Questi ragazzi devono comporsi da soli il loro codice».
Come?
«In parte grazie alla famiglia, in parte grazie alle istituzioni, come la scuola e la parrocchia. Non credo che il libro sia autobiografico: non saprei chi dei tre essere. E poi per me l’istituzione di riferimento sono stati gli scout, che qui non compaiono».
Perché il titolo, un verso di Shakespeare?
«L’ho ritrovato e mi sono ricordato della prima volta in cui l’avevo letto: ero innamorato, in segreto, di una ragazza. Ho pensato che se qualcosa ti fa emozionare a sedici anni, e poi a 40, ha un suo valore eterno. Questo è il tratto più autobiografico del libro».
Negli ultimi anni si è dedicato molto a camminare: la via Francigena, il cammino di Santiago. C’è un legame fra camminare e scrivere?
«Camminare è una pratica liberatoria ed è una fonte di ispirazione. E sì, camminare e scrivere si assomigliano tanto».
Perché?
«Innanzitutto sono complementari. La stagione dei cammini è la primavera, e la scrittura è perfetta in autunno e in inverno. Poi, quando sei in viaggio, accade la stessa cosa di quando scrivi: ti ritrovi davanti a dei bivii, e devi decidere da solo da che parte andare».