La Stampa, 19 giugno 2018
«Sono ossessionato dal tempo, cerco di catturarlo con l’arte». Intervista a Ed Ruscha
In 60 anni di carriera l’artista Ed Ruscha ha plasmato la nostra percezione del paesaggio americano. Il suo tratto elegante, studiato e spesso umoristico comunica una visione unica che si potrebbe definire zen americano. Ora Ruscha è di scena alla National Gallery di Londra fino al 7 ottobre 2018 per la mostra Course of Empire in collaborazione con la galleria Gagosian. Raccoglie 10 dipinti fatti tra il 1992 e il 2004 esposti nel padiglione americano della Biennale di Venezia nel 2005. «I primi cinque - dice lui - che ho definito Blue Collar - sono in bianco e nero e grigio e il secondo set è a colori» .
Perché li ripropone adesso?
«Uno dei motivi è che la National ospita anche una mostra di Thomas Cole, artista attivo tra 1820 e 1840 in America, autore di una serie di dipinti intitolata Corso dell’Impero che descrivono la vita di una nazione. Un giorno giravo per la New York Historical Society e per caso li ho visti: il primo è Stato Selvaggio e da qui si sviluppa tutto; il secondo rappresenta una sorta di Eden, lo Stato Arcadico o Pastorale; il terzo, più grande s’intitola Consumazione dell’Impero e rappresenta la società romana all’apice della sua prosperità; il quarto, Distruzione, racconta come la guerra devasti questa splendida civiltà e porti saccheggio assassini e patimenti, fino alla distruzione. In Desolazione, il quinto e ultimo dipinto, si ritorna alle origini».
I suoi dipinti sono esposti insieme a quelli di Cole?
«Sono stato molto ispirato da lui. Non dai paesaggi ma dalle sue idee. I miei quadri sono immaginari, i suoi sono più realisti ma il significato è simile.
I miei sono raccolti in una stanza, nella parte anteriore del museo, esposti in due blocchi, quelli in bianco e nero sopra quelli a colori. Quelli di sopra rappresentano edifici immaginari e sotto gli stessi soggetti molti anni dopo».
Perché nei dipinti inserisce anche delle parole?
«Ho imparato a sistemare i caratteri di stampa alla scuola d’arte. Volevo diventare un pittore di insegne e da lì è iniziato tutto. Iniziai ad interessarmi all’idea della poesia, alle parole insolite o con un duplice significato. Iniziai a vedere che le parole dipinte erano un valido soggetto».
Lei è un artista pop come Andy Warhol e Claes Oldenburg, o un battitore libero?
«Non ho appartenenze. Ogni vero artista non è esattamente e solo una cosa. Negli Anni 60 mi consideravano un artista pop. Anche Mario Schifano faceva parte di quel filone. Condividevamo un interesse per la cultura popolare, per le cose di tutti i giorni. Il curatore Walter Hopps definì questo movimento New Painting of Common Objects. Tutti i cosiddetti artisti pop amavano e rispettavano l’Espressionismo astratto, me compreso. Ma il movimento fu sfruttato fino alla morte, rimaneva ben poco di nuovo da aggiungere».
Lei descrive la vita americana come Edward Hopper?
«Qualcosa di simile. Tutta l’arte è fatta di altra arte. È difficile trovare nella storia qualsiasi artista completamente avulso dall’arte precedente».
Chi l’ha influenzata di più?
«Jasper Johns è stato la mia introduzione all’arte. Ho visto il suo quadro della bandiera americana ed è stata la bomba atomica della mia istruzione. Poi Laurence Weiner, che era un puro artista concettuale. Scrisse in una sua opera d’arte: An object tossed from one country to another (un oggetto scagliato da un paese a un altro). Quella dichiarazione era la sua opera d’arte e definisce veramente l’arte concettuale. Il pensiero era l’ingrediente essenziale nel loro lavoro».
Perché l’arte è così legata al denaro oggi?
«Siamo in un periodo di prosperità. C’è interesse e molti più collezionisti d’arte rispetto a venti anni fa. C’è più domanda e quindi un maggior numero di artisti può affermarsi».
A cosa sta lavorando ora?
«Una mostra per il museo della Secessione di Vienna a novembre. Si intitola Double Americanisms. Sto dipingendo alcune bandiere americane, riproduzioni di dipinti precedenti del 1980, del 1996, e Our Flag dell’anno scorso su sfondo nero. Il vento soffia e lo strappa. È a brandelli»
Quanto lavora?
«Ogni giorno. Mi prendo delle vacanze ma continuo a lavorare. Non sempre con grandi risultati. Mi è difficile pensare all’arte in termini di produzione. Lavoro e basta. A volte in quattro o cinque giorni non faccio nulla che mi piaccia. Ma non mi preoccupa».
Il tempo l’ha cambiata?
«Sono cambiato con gli anni, ma mi sento molto simile a quando avevo 18 anni. Ho una visione vaga della vita».
Come si rapporta al tempo?
«Il mio lavoro ha molto a che fare con il tempo. Ho fotografato il Sunset Boulevard ogni anno, nello stesso modo, per 50 anni. Con la mia auto e la mia Nikon fotografo tutti i negozi su entrambi i lati della strada. È uno studio, o un documento sul cambiamento e sento che racchiude un grande valore».
Quasi un’ossessione?
«Sì, è la storia della mia vita. La vita è una follia. Vita e arte sono insensate eppure allo stesso tempo piene di significato».
(Traduzione di Carla Reschia)