Pibe, cosa fa adesso?
«Vivo sempre per il calcio, a modo mio. Alleno una squadra di under 17, così sto tranquillo, niente pressioni. Gioco partite di calcio amatoriale, ma con serietà massima: se voglio fare un tunnel, lo faccio. Se invece il tunnel lo fanno a me, mollo una “patada”, un bel calcione. E se mi fanno giocare dall’inizio, sono felice, ma dopo non voglio uscire, grazie. Poi guardo sempre calcio in tv, e vado in giro, mi piace viaggiare. Ma tutto coi miei tempi. Ho sempre fatto le cose con calma, compreso l’esordio in nazionale: a 24 anni».
Oggi la Colombia inizia il suo Mondiale, sensazioni?
«Siamo forti. James, Falcao, Cuadrado, Ospina, giocatori eccellenti, e hanno già l’esperienza di 4 anni fa, quando perdemmo dal Brasile nei quarti. E Pekerman è un grande allenatore. Ha preso nello staff Cambiasso e da noi c’è stata polemica, perché è un altro argentino. Ma io dico che se uno è bravo, e quei due lo sono di sicuro, può aiutare la Colombia».
Poi c’è il colombiano Osorio, che allena il Messico e ha già battuto la Germania.
«In Europa lo conoscete poco ma vi assicuro che è un numero 1. Punta tutto sul lavoro, sulla disciplina, ha mentalità vincente. Porterà il Messico ben oltre gli ottavi».
Lei continua a essere un mito per chiunque, per le sue imprese calcistiche e per la sua celebre capigliatura.
«Confesso, è un grande piacere. Con quella Colombia negli anni Novanta siamo stati in tre Mondiali, abbiamo dato lustro al nostro paese. È una soddisfazione che dura tutta la vita, ricordi meravigliosi. Nella mia città, Santa Marta, c’è la mia statua di quasi 7 metri davanti allo stadio, mi sa che è la più grande del mondo per uno sportivo, o quasi. A Capodanno la gente ci va in processione. Quanto ai miei capelli, decisi di tingermeli a 18 anni e non ho più smesso. Piacciono a tutti tranne a mia madre, che mi faceva sempre vedere una foto di quando avevo 17 anni e mi diceva: “Guarda com’eri bello qua, e come sei brutto adesso”».
La sua Colombia era tutta gioco corto e tecnica.
«Con Maturana arrivammo al massimo, lui era uno stratega magnifico. Esaltò le nostre qualità, ma in settimana si lavorava di brutto sulla tattica e pure sulla preparazione atletica, non credete. Anche io dovevo, sennò non giocavo. Poi arrivava la partita e lui non aveva nulla da dire, scriveva solo sulla lavagna i nomi degli 11, tanto in settimana aveva già detto e fatto tutto. Al Mondiale di Italia ’90 ci tradì quell’errore di Higuita, che sbagliò il dribbling su Milla col Camerun, ma non gliene ho mai voluto: lui era lo stesso se giocava in spiaggia o a Wembley, era fatto così, era il suo bello. Nel 1994 avevamo la squadra più forte di sempre, ma perdemmo la prima con la Romania, che ci fregò in contropiede, poi con gli Usa l’autogol di Escobar, e addio. Poi lo uccisero, povero Andrès, ma quelli erano anni brutti, in Colombia si viveva nella paura».
Ora il calcio è cambiato parecchio, si direbbe.
«Completamente. La mia Colombia, e il calcio di quegli anni, era ancora pura tecnica.
Adesso è proprio un’altra cosa, corrono tutti come matti. Ma dove vanno? Mi piacciono quelli che mettono ancora la tecnica al primo posto: il Brasile, l’Argentina, la Germania, le mie favorite. La Spagna non so, cambiare un allenatore in quel modo può essere pericoloso».
Messi, Cristiano Ronaldo e Neymar?
«Sempre Messi: sa fare tutto in campo, proprio tutto».
Ma con i vari Higuita e Asprilla vi vedete ancora?
«Ma certo. Quasi ogni sabato giochiamo ancora insieme, “los viejos”. Spesso contro i giornalisti colombiani della nostra età, quindi viejos pure loro».
Li straccerete.
«A volte invece pareggiamo. Ce ne sono di bravi, pure tra i giornalisti. E alcuni di loro si ostinano a correre troppo».