la Repubblica, 19 giugno 2018
Ant, la formichina dei record ora preoccupa anche Pechino
Ha iniziato con poche pretese Alipay. Nel 2004 la Cina si stava convertendo in massa all’e- commerce e Jack Ma, papà di Alibaba, aveva bisogno di farla pagare online. Si è agganciato ai conti correnti dei cittadini, è entrato nei loro smartphone, e da allora non li ha più mollati. Perché non seguirli anche nei negozi veri, di mattoni e cemento? Oggi 700 milioni di cinesi pagano tutto e solo con Alipay (o con la concorrente WeChat): i noodles, le bollette, l’auto nuova, perfino l’elemosina, addio contante. Se non hanno denaro a sufficienza, perché non offrire loro un prestito? Ant Financial, scatola societaria di Alipay, ne ha già erogati per 90 miliardi di dollari. E quegli spiccioli rimasti nel borsello virtuale, perché non farglieli investire? Oggi ha in gestione un patrimonio da 345 miliardi, nel più grosso fondo monetario del pianeta. Dulcis in fundo, che ci vuoi fare con questa marea di dati, se non costruire il più fedele sistema di merito creditizio mai visto? Qualcosa più di un rating, un voto alle abitudini di vita. Così in Cina è nata la società finanziaria totale, il sogno proibito di ogni banchiere. Ma l’ha realizzata un imprenditore digitale perché sono le informazioni, non i soldi, la sua ricchezza. Ora c’è la fila per averne un pezzetto prima che sbarchi in Borsa, pare nel 2019. Nell’attesa Ant, “la formichina”, aveva bisogno di un ultimo pieno di liquidità. Si è appena assicurata un finanziamento privato da 14 miliardi di dollari, il più ricco mai chiuso da una società tecnologica. Nel capitale sono entrati, tra gli altri, il fondo sovrano di Singapore Gic, il fondo pensione canadese e i colossi del private equity Warburg Pincus e Carlyle. Non certo a prezzi di saldo: la valutazione sarebbe 150 miliardi di dollari, più di Goldman Sachs e poco meno di Bank of China. Se le startup da oltre un miliardo sono unicorni, e quelle oltre i dieci i decacorni, con Ant la tassonomia si aggiorna: in cima alla catena alimentare è arrivato l’ettocorno.
Quando Jack Ma ha portato Alibaba in Borsa la sua prima creatura valeva poco di più, 164 miliardi, sdoppiando l’impero è riuscito a raddoppiarlo. Ancora fa discutere l’operazione con cui nel 2010 staccò Alipay dal costato di Alibaba, tagliando fuori i suoi primi finanziatori, l’americana Yahoo e la giapponese Softbank. Un blitz con cui ha blindato la “formichina” in un veicolo tutto cinese, assicurandole libertà di azione sul mercato finanziario più chiuso al mondo. Magari ce l’avrebbe fatta anche sgomitando tra Visa e PayPal. Di certo con una normativa bancaria meno lasca avrebbe fatto fatica a concentrare sotto lo stesso ombrello pagamenti, risparmi, prestiti e rating. Adesso sembra che anche il regolatore cinese sia preoccupato da tanto rischio in un solo corpo. Si vocifera di nuove regole per aumentare i requisiti di capitale degli operatori digitali, sarebbero un ostacolo alla crescita di Ant (+65% lo scorso anno, 1,2 miliardi di utili pre tasse). D’altra parte è difficile che Pechino azzoppi un campione della sua nuova economia, partecipato da diversi fondi statali e sempre fedele alla linea. Sesame rating, il suo sistema di merito creditizio, dovrebbe diventare parte integrante di quello “sociale” che il Partito vuole introdurre nel 2020. Semmai è all’estero che la mole di Alipay sta diventando un problema.
A gennaio le autorità americane hanno bloccato l’acquisizione di Moneygram, ipotizzando minacce alla sicurezza nazionale. Sarebbe stato il primo passo negli Stati Uniti, la vera espansione oltre confine. Impossibile, mentre infuria la guerra commerciale tra Washington e Pechino. Ma agli investitori, a giudicare dagli assegni che hanno staccato, sembra andar bene anche così.