Corriere della Sera, 19 giugno 2018
L’ozio creativo salverà il lavoro
Non si è mai parlato tanto di lavoro se non da quando ha cominciato a mancare. Colpa della tecnologia, si dirà: eppure, secondo Michel de Certeau, l’innovazione tecnologica non precede, ma segue sempre il mutamento sociale. Non è che la conseguenza di nuove esigenze economiche. Proprio partendo dalle dinamiche sociali, torna a parlare delle problematiche del lavoro Domenico De Masi, che a questo tema si dedica da una vita.
Al primo sguardo Il lavoro nel XXI secolo (Einaudi) può apparire come la risposta al Capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty (Bompiani, 2013), per mole e completezza, ma più che emulare lo sforzo dell’economista francese, De Masi compie un’operazione di sintesi storica che corona tutta la sua lunga attività di sociologo del lavoro.
Muovendo dalla Genesi biblica, arriva agli esiti più recenti della pratica postindustriale, passando per le diverse definizioni di lavoro nelle varie epoche e soffermandosi soprattutto sul passaggio dalla società industriale al lavoro immateriale. Un testo fondamentale e illuminante, destinato a segnare un punto fermo negli studi sociologici. Perché il lavoro è un tema centrale in sociologia e ha costituito l’elemento primario per la realizzazione dell’identità umana, ma con notevoli diversificazioni nel corso del tempo.
Nell’antichità classica era un semplice servizio materiale di scarsa considerazione, riservato ai più umili e alle donne. Bisogna aspettare l’avvento della modernità perché diventi un bisogno, un dovere morale, lo scopo stesso dell’esistenza. È la modernità, infatti, che elabora un’etica del lavoro, principio della dignità umana, persino riconosciuto dalla Costituzione come valore universale a fondamento dello Stato. Anche se André Gorz, con spirito critico, scrive che «ciò che chiamiamo lavoro è un’invenzione della modernità», quell’etica del sacrificio e della subordinazione è stata necessaria per lo sviluppo dell’industrializzazione.
L’analisi di De Masi contrappone così il lavoro nella società preindustriale e industriale a quello nella società postindustriale, dove si viene a perdere la «certezza» del lavoro e persino la sua funzione identitaria, per certi versi sostituita dal consumismo. Le conseguenze sono evidenti: aumento della produttività e diminuzione dell’occupazione, automazione dei processi produttivi, smaterializzazione del lavoro, prevalenza del terziario, superamento del tempo libero rispetto al tempo del lavoro, sottoccupazione (benché i giovani siano in possesso di una preparazione mediamente più alta che in passato) e, infine, crisi economica. A ciò si aggiungono i problemi creati dall’applicazione di una politica economica neoliberista, che favorisce la competitività tra gli individui, la diminuzione del welfare e una crescente disuguaglianza economica, elementi che tradiscono la promessa originaria del lavoro come libertà. Un concetto già degradato a macabro slogan posto sopra l’ingresso di Auschwitz («il lavoro rende liberi»).
Ma l’opus magnum di De Masi non si limita all’evoluzione storica che l’attività produttiva ha compiuto nei secoli: è anche un manifesto appassionato per la liberazione da un lavoro oppressivo, noioso, non appagante e competitivo. Il futuro che preconizza con spirito utopico, di fronte alle difficoltà che la digitalizzazione e la meccanizzazione impongono al mercato occupazionale, è alla luce della creatività e della cooperazione tra gli individui.
Traspare in De Masi una predilezione per l’ozio creativo, dove l’uomo sia l’élite agiata all’interno di una società delle macchine: quasi un ritorno alla romanità che aveva praticato l’otium, opposto al meno nobile negotium, da svolgere nelle terme, luogo di piaceri, ma anche di affari e di decisioni politiche, che la cristianità ha provveduto a cancellare per la sua indecenza.
Ma la società romana era classista e viveva sfruttando gli schiavi e la plebe, mentre la società postindustriale può contare, senza remore, sui benefici dell’automazione. Un mutamento che non solo impone un ripensamento sul concetto di lavoro, ma fa riflettere sulla scarsa attenzione per il lavoro intellettuale, quello più creativo per eccellenza, che per troppo tempo è stato considerato improduttivo.
Adesso che la smaterializzazione ci spinge decisamente verso un’attività del pensiero, forse non sarà più necessaria la classica domanda che si poneva Joseph Conrad: «Come faccio a spiegare a mia moglie che, quando guardo dalla finestra, io sto lavorando?».