Corriere della Sera, 19 giugno 2018
I nuovi versi di Visar Zhiti
Durante la Messa di papa Francesco in Vaticano – 5 giugno 2016 – il poeta albanese Visar Zhiti (Durazzo, 1952) va alla ricerca della «colomba bianca» della fanciullezza del figlio Atjon. Rientrato a Tirana da Milano per le vacanze di Natale 2014, Atjon muore in un incidente con la moto. Ha 19 anni e studia all’Università Cattolica. Verso le 5 del mattino, la madre Eda telefona a Milano: «Atjon… Siamo all’obitorio». «Sei sicura? Starà dormendo. Vedrai che basterà una carezza per svegliarlo», le rispondono.
Appena entrato al secondo anno di Filosofia, oltre che saggista politico (sul contenuto di alcuni interventi non favorevoli al governo c’era chi storceva la bocca dato che il padre, Visar, era allora ministro della Cultura), Atjon era anche pittore. Ma gli amici dello Stivale lo scopriranno solo durante le esequie.
E proprio un disegno di Atjon riporta la copertina di La notte è la mia patria, il nuovo libro di versi di Visar Zhiti (Pazzini editore, pp. 100, e 12), tradotto da Elio Miracco; prefazione di Ennio Grassi. «Dov’è la tua colomba, figlio,/ la colomba bianca della tua fanciullezza?» insiste il poeta. «E non volevi crescere/ perché così nemmeno le colombe/ avrebbero avuto paura di te…».
È trascorso quasi un anno e mezzo dalla morte di Atjon e Visar – lasciata la carica di ministro della Cultura in Albania per quella di ambasciatore presso la Santa Sede – si guarda intorno in cerca di un qualsiasi segno di presenza del figlio. Segni che tenta di rintracciare anche di notte: il poeta riesce a leggere, o crede di poterlo fare, persino nell’oscurità. Come su uno spartito, il libro inizia con un lentissimo («Prendo la mano mite di questa sera/ l’accarezzo, poi l’apro per leggervi il destino») per cambiare il tempo in uno stringendo («Vorrei che la mia anima/ (…) come un mantello invisibile vi coprisse,/ e in superficie si sentissero le mie parole/ come una pioggia incantata») per chiudere con un doppio movimento («Tutto questo giorno solo per ricordare…/ Ma l’orrore è più grande, non lo contiene questo giorno, / straripa oltre (…)/. Anch’io voglio il mio giorno della dimenticanza…/ L’addio c’è stato, come una penna avrei voluto scriverlo,/ come chiave della tua casa sia l’ora del rientro,/ la tieni appesa al collo come un bambino/ per non perderla durante il gioco, perché tutto è stato un gioco/ figlio!»). Vengono in mente altri due poeti, colpiti nello stesso modo: Giosuè Carducci (Rime nuove per Dante, di tre anni) e Giuseppe Ungaretti (Il dolore per Antonetto, di nove).
E, al tempo stesso – ripercorrendo la biografia di Visar Zhiti —, una storia drammatica, ma a lieto fine. Infatti il poeta, imprigionato per la raccolta di versi Rapsodia della vita delle rose – come il padre, attore teatrale e commediografo – dopo otto anni di prigionia nei campi di lavoro (miniere di rame e fabbrica di mattoni), con la caduta della dittatura comunista, riacquista la libertà. Quindi, pubblica una decina di libri (poesia, narrativa e saggistica), è considerato alla stregua di un Ismail Kadare, viene eletto deputato del Parlamento albanese, intraprende la carriera diplomatica (Italia, Stato del Vaticano e, attualmente, all’ambasciata di Washington) e così via. Ma il tutto viene devastato dalla morte dell’unico figlio.
L’impronta che lascia il poeta con la sua pena, dura una stagione (come quella sulla neve) e col passare del tempo si scioglie nei ricordi, oppure lo segna a vita? Raccontano che Visar Zhiti non abbia avuto la forza di rispondere alla domanda di Anila Kadija.