Corriere della Sera, 19 giugno 2018
«Gioco a scacchi con il cancro. Quattro mosse per batterlo»
L’uomo che sfida il cancro è un italiano eclettico, un po’ medico, un po’ scienziato, un po’ filosofo, un po’ musicista, uno che a Harvard ha una cattedra a vita e dirige una squadra speciale che duella con l’alieno come in una partita a scacchi: «Quattro mosse e si può vincere», dice. C’è dell’ottimismo contagioso nelle parole di Pier Paolo Pandolfi, direttore del programma di genetica del cancro a Boston, una nomination al Nobel, centinaia di pubblicazioni scientifiche, premio Pezcoller per l’oncologia, e viene spontaneo mettere le mani avanti quando si tratta dell’«imperatore del male», ma dopo i risultati incoraggianti sulle leucemie, nei suoi laboratori si preparano le pallottole intelligenti contro i tumori solidi. «Siamo a una svolta, e abbiamo bisogno dell’entusiasmo del mondo», spiega, mentre sfoglia la road map per la cura e offre un’alleanza ai grandi centri di ricerca sul cancro.
L’Italia è un’avanguardia dell’oncologia, qui si è scritta una pagina di storia con Gianni Bonadonna e Umberto Veronesi, la prima chemioterapia e il linfonodo sentinella, qui ci sono centri di eccellenza riconosciuti nel mondo e qui si ritorna con Pandolfi, quarant’anni dopo: l’America, l’Italia e una guerra da vincere. Non è un caso se il board dell’Harvard Medical School per la prima volta in trasferta sceglie Cernobbio, dove Maurizio Tamagnini, amministratore delegato del Fondo strategico italiano e membro del board, cerca di creare le condizioni per mettere l’Italia al centro di un progetto europeo, sull’asse Milano-Harvard. «Abbiamo fatto enormi passi avanti nella lotta al cancro e alle malattie neurodegenerative con il libro aperto del Dna. Oggi la lettura del genoma è come la Treccani – spiega Pandolfi – ci permette di conoscere le istruzioni per la vita, le cellule amiche e quelle nemiche. Nel nostro Cancer center abbiamo scoperto il lato oscuro del Dna, da lì è partito tutto: conosciamo il killer, stiamo cercando di neutralizzarlo addestrando le cellule sane a riconoscerlo e a distruggerlo».
Pandolfi a 55 anni è un sognatore pragmatico, figlio di una cultura umanista, deciso e determinato. Dirige cinquemila persone, tra medici, tecnici, infermieri, oncologi, scienziati e gruppi di ricerca, gestisce stanziamenti per decine di milioni di dollari, è americano da vent’anni ma si sente un prodotto made in Italy. «Non sono un cervello in fuga. Ho solo risposto ad un’offerta interessante. Se un giorno ti chiedono di dirigere i Berliner che cosa rispondi? Why not…».
Ad Harvard ha realizzato un ospedale del topo per ricreare il tumore da combattere e avere un modello sperimentale su cui studiare. «L’immagine è quella di tanti avatar, sui quali riprodurre la malattia e sperimentare la cura che funziona». Il passaggio successivo è la staffetta topo-uomo. Poi è passato agli organoidi, che non sono fantascienza, ma micro-organi costruiti in laboratorio su cui testare le terapie mirate. Da lì si passa al vaccino personalizzato, quello che addestra le guardie immunitarie a colpire il bersaglio giusto. «Cerchiamo di bloccare l’azione maligna con farmaci che agiscono direttamente sul tipo di Rna, la molecola che codifica e decodifica l’espressione dei geni». Sono i quattro pilastri della strategia Pandolfi, le mosse di una partita a scacchi che entra in una fase nuova per il cancro, malattia diventata curabile, ma non sempre guaribile. «Gli oncologi in futuro potranno sorridere al paziente e non soltanto abbassare lo sguardo», è convinto il medico-ricercatore che ha reso una forma di leucemia, la promielocita acuta, la prima e unica neoplasia del tutto guaribile con i farmaci.
«L’Italia mi ha formato, l’America mi ha dato la possibilità di lanciare una grande sfida», dice. Una sfida diventata personale. Il padre morto di tumore. La madre anche. «La battaglia contro il cancro mi tocca dentro». Doveva essere un filosofo della scienza. Studiava a Roma e seguiva i corsi di pianoforte al Conservatorio. Ha lasciato la Capitale per Perugia, facoltà di Medicina. «Uno scienziato deve essere anche medico». Lavora sulle leucemie con Pierluigi Pellicci, che diventerà direttore scientifico dello Ieo a Milano. Si specializza a Londra. Viene reclutato dagli scout dello Sloan Kettering, di New York, il santuario mondiale dell’oncologia. Poi la chiamata ad Harvard, il massimo per la ricerca. Oggi il cerchio si completa: Pandolfi è di nuovo in Italia per costruire alleanze nella lotta contro il cancro. Una lotta fatta di piccole vittorie e grandi sconfitte, di medici samurai e pazienti guerrieri, di illusioni e speranze. «Noi combattiamo per vincere», dice Pandolfi.