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 2018  giugno 19 Martedì calendario

«Montanelli, Bocca e Biagi, con loro una famiglia allargata». Intervista a Giancarlo Aneri

Giancarlo Aneri saluta in modo sorprendente: «Amico mio». Quello che nel mondo degli affari è un optional per lui è la sostanza del rapporto. Amicizia, famiglia, generosità: parole antiche ma non archiviate, che funzionano ancora anche nel business. Per anni è stato direttore generale degli spumanti Ferrari prima di mettersi in proprio: con la È group produce caffè e olio, con l’Aneri vino. Prodotti di altissima qualità, che Aneri con abilità e sfacciataggine impareggiabile riesce a piazzare sulle tavole più importanti del pianeta: presidenti, papi, attori, calciatori, industriali, lussuose navi da crociera, compagnie aeree e naturalmente ristoranti stellati. Il suo album di foto è una galleria senza uguali. Ma la vera passione di Aneri, veronese di Legnago, è la carta stampata. Amico di Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Indro Montanelli, ha fondato con loro il premio giornalistico più ricco d’Italia. Quando crede in qualcosa la persegue con dedizione assoluta e senza badare a spese. Come ripete spesso, «non si vive da pezzenti per morire da ricchi».
Qual è il segreto del suo successo?
«Io stesso. Sono un atipico, non ce n’è un altro. E ho sempre lavorato sulle idee. L’idea vale più dei soldi, le mie bottiglie valgono più del fatturato. Da sette anni la Juventus regala una magnum personalizzata di amarone Aneri a ogni giocatore. Sette anni, sette scudetti, quattro coppe Italia: ormai sono dei portafortuna».
Che cosa le fece compiere il salto da manager a imprenditore?
«L’ambizione. Un’ambizione intelligente, perché non puoi fare il Maradona se non hai i numeri».
Come avvenne il passaggio?
«Fu una cosa naturale perché avevo fatto il manager con la testa da imprenditore. Lavoravo come se l’azienda fosse mia e così ho portato ottimi risultati. Ero stimato. Quando fondai la mia prima società nel 1993, la È group, avevo come soci Agnelli e Benetton. Due personaggi di gran calibro che non si sarebbero arricchiti con quella nuova avventura, ma mi stimavano per il lavoro che avevo fatto e avevano visto qualcosa che poteva crescere».
Primo prodotto il caffè.
«Rilevai una piccola torrefazione di Serravalle Pistoiese che lavora con legno d’acacia a fuoco lento. L’anno prossimo compie 70 anni. Ieri abbiamo compiuto un salto: le nuove capsule Aneri in vendita esclusiva per Esselunga, una catena che sceglie sempre il meglio ed è tra i miei clienti maggiori oltre che più affezionati: vende i miei vini da più di vent’anni».
Poi vennero l’olio e il vino. 
«Ho aperto la cantina nel 1997. Ora ho 500 clienti che in realtà sono anche partner. Li conosco quasi tutti di persona».
Com’era il rapporto con Agnelli e Benetton?
«Si divertivano. Luciano è un fratello per me. Non hanno perso soldi e l’azienda è diventata una realtà prestigiosa perché il prodotto di qualità non si valuta dai numeri ma dal ruolo che gli è dato. Non copio mai un’idea già sviluppata, le mie sono sempre idee originali che mi piacciono. Se lo facessi perché me lo dice un altro, non avrei lo stesso risultato. Sono un sarto che taglia vestiti su misura, non il colosso del prêt-à-porter. Numeri piccoli, altissima qualità e come obiettivo il mondo».
Nel 1993 non c’era ancora il culto del made in Italy alimentare. Si sente un precursore?
«Quando andavo a New York a spiegare i vini, prima ancora di sentire le caratteristiche mi chiedevano quanto costava. Quarant’anni fa il vino si vendeva solo se c’era il prezzo. Io ho sempre ribaltato la prospettiva: il vino è bello, buono, originale. Il cambiamento è stato enorme, oggi c’è più cultura, più passione, più qualità».
E prezzi più alti.
«Certo. Per i produttori seri il guadagno è ossigeno per investire nel vigneto, nella qualità dell’uva, nel marketing. Un grande prodotto senza un grande progetto di marketing è destinato ad avere il 50% del successo che meriterebbe».
Quale idea ha avuto nel marketing del vino?
«Personalizzare il fatto che credo nella famiglia. Le tre aziende agricole che producono il prosecco portano il nome delle mie nipotine. L’amarone l’ho dedicato a mia figlia Stella, il pinot nero a mio figlio Alessandro, il pinot bianco a mia moglie Leda, il rosé di lambrusco, una rarità, si chiama Reni come mia mamma».
La famiglia come marchio: scelta anticonformista.
«Il mio progetto nasce dalla famiglia perché è un elemento di credibilità: come fai a non produrre per tua nipote il più buon vino che puoi dare? Quando partivo per viaggi di lavoro, portavo sempre mia moglie e i bambini, e alla sera cenavamo assieme. Era una spesa, ma anche in una città come New York se hai i tuoi cari sei a casa. Univo l’utile del lavoro al dilettevole della compagnia e magari andavo in un ristorante che era cliente nostro. Li ho portati ovunque e i miei figli hanno imparato da piccoli a conoscere il mondo».
Lei conosceva bene anche un altro Ferrari, Enzo. 
«Uno dei grandi riferimenti della mia vita. Lo frequentavo spesso, parlavamo di macchine, donne e cibo. Alla vigilia del primo viaggio negli Stati Uniti andai a salutarlo. Commendatore, gli chiesi, come mi consiglia di comportarmi in America? E lui: se hai un prodotto che consideri buono e hai di fronte qualcuno che non mostra interesse o non capisce, alzati e vattene che guadagni tempo».
Aveva ragione?
«Eccome. Quante soddisfazioni mi sono levato. Ho avuto tantissimo da persone più grandi di me in età».
Montanelli, Bocca, Biagi.
«Bocca aveva pochissimi amici ma io andavo a mangiare a casa sua. Mi rimproverava: sei troppo felice e troppo ricco».
Lei per loro era un amico, non un allievo che venera dei maestri. È così?
«Questi grandi si sono affezionati a me perché hanno capito che ero sincero. Arriva un giorno in cui scatta qualcosa, e non è più la devozione ma l’amicizia, sia pure con ruoli diversi. Da loro ho imparato molto perché li ho ascoltati e non mi hanno mai deluso. Un giorno ero con Montanelli al ristorante Al Porto, dove si mangia il miglior pesce di Milano: un importante uomo d’affari si avvicina, lo abbraccia, rievoca le passeggiate a Cortina, poi torna al suo tavolo. Montanelli si siede e mi sussurra: ricordati che quello è un fregnacciaro. Non è detto che chi ti fa le feste sia uno da frequentare. Con i miei grandi vecchi non è stato così».
Da loro che cosa ha imparato?
«Biagi era buono, ha aiutato tantissime persone senza dirlo, ed era un grande uomo di televisione. Montanelli era la penna che tutto il mondo ci invidia e che fra 200 anni sarà ancora ricordato. Bocca era deciso nel difendere le sue idee: quando dovevamo scegliere il vincitore del premio È giornalismo, se lui poneva un veto, quel no era no. Una volta arriva Biagi mogio perché le analisi non andavano bene. Anche le mie non vanno bene, ribatte Bocca. Come hai risolto?, gli chiede Biagi. E lui: non le ho più fatte. Aveva 80 anni, è morto a 91 e mezzo».
Il premio È giornalismo com’è nato?
«Frequentavo loro tre, ero innamorato di quello che scrivevano. E ho pensato alla morte. Volevo che questi campioni potessero essere ricordati sempre insieme. Volevo tenerli in vita anche da morti. Ho il culto della continuità, lo metto in pratica con i miei nipotini».
Lo si può pensare solo per le persone più care.
«Succede quando gli amici diventano come la famiglia e loro tre erano una specie di famiglia allargata. La mia prima bottiglia di prosecco per bagnare la nuova avventura imprenditoriale l’hanno bevuta loro. Biagi festeggiò gli 80 anni con una magnum di prosecco Aneri, Montanelli i 90 a Fucecchio con un’altra magnum di prosecco Aneri. A Bocca per i suoi 90 regalammo una bottiglia da 9 litri di amarone con le firme di tutta la giuria del premio. Non le toglieva gli occhi di dosso».
Come si entra nei grandi palazzi del potere?
«Ero scatenato, pronto a tutto. Con lo spumante Ferrari ho rotto il monopolio della Moët & Chandon nelle premiazioni di Formula 1. Un anno a Imola va sul podio Arnoux e io gli schiaffo una magnum di 3 litri in mano. I fotografi mi riempirono di insulti, volevano che spostassi la bottiglia, ma io me ne fregai. Adesso avrei più riguardo».
Invidia lo champagne ai francesi?
«Invidio loro soltanto le cravatte di Hermes. Sono 50 anni che le compro, ne ho tantissime».
Renzi dice di essere stato il primo presidente del Consiglio a regalare vino italiano ai leader stranieri.
«Il primo fu Berlusconi. Donò l’amarone Aneri a Obama e agli ospiti del G7 all’Aquila in una cassetta personalizzata realizzata da uno scultore di Bergamo. Putin l’ha ricevuto quattro volte, anche da Gentiloni».
Un nettare bipartisan.
«Prodi regalò il mio olio: viene dall’ulivo...».
Il Papa?
«Giovanni Paolo II in una visita ad Assisi ricevette l’olio della pace. Ma la scena più bella fu a un altro G7».
Racconti.
«1987, Venezia, governo Fanfani. A Palazzo Ducale c’era il pranzo ufficiale con Reagan, Mitterrand, Kohl, la Thatcher e gli altri leader. Ero il consulente della presidenza del Consiglio nella scelta dei vini. Ogni tanto aprivo la porta per sbirciare nel salone e così il caposcorta di Reagan volle sapere chi fossi. Se glielo avessero detto, mi avrebbe sbattuto fuori. Invece il capo del cerimoniale gli sussurrò: è il padrone del palazzo. Il caposcorta venne a farmi i complimenti e quando andai alla Casa Bianca mi fece da guida».
È sempre stato curioso?
«Sono un giornalista mancato e un imprenditore di discreto successo. Uso la mia curiosità giornalistica per fare business. Quando sono in giro mi piace camminare, lo faccio per tenermi in forma ma anche per guardare in faccia la gente. Se guardi ciò che fanno gli altri capisci ciò che potrebbe esserti utile. Una sera al ristorante Luciano Benetton mi dice: fammi un favore, conta quanti hanno la camicia azzurra e quanti bianca. Gli serviva per decidere che cosa produrre. Anche lì ho imparato qualcosa. Il mondo è fatto di piccole cose che diventano grandi».
Lei è rimasto tra i pochi ad apprezzare i giornali.
«Amo il giornalismo, la lettura, l’approfondimento, la carta. Molti giovani non sanno nemmeno tenere in mano un quotidiano, in treno lo regalano e loro lo rifiutano. Sono tutti presi dai telefonini. Guardano i telegiornali, a volte, e pensano di sapere senza approfondire. È una grave perdita».
Le news online?
«Se il quotidiano è una fiorentina, il web è una paillard. Sul computer posso leggere al massimo le ultim’ora».
Come mai non ha fatto l’editore?
«Sarei rimasto povero. Ho aiutato Montanelli quando fondò la Voce. Per tre mesi ho trascurato il mio lavoro per raccogliere soldi. Benetton fu il più generoso e anche Del Vecchio e Cecchi Gori contribuirono con forti somme. Tutti soldi persi e nessuno mi rimproverò. Sono stato tradito solo dai miei conterranei. Un imprenditore dei biscotti era pronto a versare 500 milioni di lire con altri industriali se gli avessi portato Indro a Verona. Organizzo al Caffè Dante, erano un bel gruppo. Alla fine, questo mi prende da parte: voleva cominciare con 50 milioni per poi crescere. Risposi che Montanelli non accettava la carità da nessuno. Abbiamo rotto i rapporti».
Come fa un veronese a tifare Juventus?
«Sono bianconero da sempre. La Juve non ha una squadra, ne ha due. C’è un’ottima atmosfera. E guadagnano, John Elkann è contento».
Quindi niente business, pura passione.
«Solo soddisfazioni. In realtà ho anche sofferto molto: nel 1983 ero ad Atene con mio figlio Alessandro e altri amici per la finale di coppa dei campioni con l’Amburgo, avevamo un bell’albergo in riva al mare, tutto prenotato e pagato. Dopo la sconfitta siamo fuggiti sul primo volo charter, ho dovuto dare delle mance per salire a bordo. Ma poiché la Juve ha celebrato i 100 anni con il prosecco Aneri e da sette anni festeggia gli scudetti con il mio amarone, sono il tifoso più gratificato del mondo».