Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2018
Emergenza petrolio anche in Libia
La fine della tregua sui dazi tra Cina e Stati Uniti confonde le prospettive sui mercati petroliferi, a pochi giorni da un vertice Opec che si preannuncia molto difficile. Il greggio «made in Usa», che ad aprile era rimasto fuori dalla lista dei controdazi di Pechino, è ora un diventato un obiettivo centrale delle potenziali ritorsioni cinesi, insieme al carbone (ma significativamente non al gas in forma liquefatta). E se il Paese asiatico dovesse mettere in pratica le sue minacce, la sostituzione dei barili americani potrebbe andare a vantaggio dei fornitori mediorientali, compreso l’Iran.
Il ripristino delle sanzioni Usa contro la Repubblica islamica è uno dei problemi centrali con cui l’Opec e i suoi alleati si stanno confrontando. L’altro è il crollo della produzione del Venezuela. Dai due Paesi il mercato rischia di perdere 1,5 milioni di barili al giorno entro la fine del 2019, stima l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), che mercoledì scorso ha unito la sua voce al coro di quanti esortano al ritiro dei tagli produttivi da parte dell’Opec Plus.
Da qualche giorno ad aggravare la situazione è intervenuta peraltro un’ulteriore emergenza: gli scontri tra fazioni avverse in Libia si sono riaccesi, portando al blocco delle esportazioni petrolifere dai porti di Es Sider e Ras Lanuf. In quest’ultimo scalo ci sono stati «danni catastrofici» agli stoccaggi, ha segnalato ieri la National Oil Company (Noc): due serbatoi dei cinque che funzionavano ancora sono andati distrutti, per una capacità di 400mila barili, e gli altri tre sono minacciati dalle fiamme. La produzione libica – che era stata risparmiata dai tagli Opec e che il mese scorso sfiorava un milione di barili al giorno – è già scesa intorno a 750mila bg e dovrebbe calare ancora. In reazione a questi sviluppi il Brent ha recuperato il 2% tornando sopra 75 $/barile, dopo essere sceso fino a 72,45 $, il minimo dai primi di maggio.
Un ripensamento dei tagli da parte dell’Opec Plus è ormai nelle carte. La settimana scorsa il ministro saudita Khalid Al Falih ha affermato che un graduale aumento dell’output sarà «inevitabile». Ma una decisione unanime al vertice di venerdì sarà molto difficile da raggiungere. Dietro le quinte le trattative proseguono da giorni senza sosta per mediare tra l’alleato russo, che vorrebbe un aumento di 1,5 mbg, e la posizione di Riad, che cerca – secondo le parole di Al Falih – un accordo «ragionevole e moderato». Il compromesso su cui si sta lavorando, riferiscono fonti Bloomberg, è un aumento del tetto produttivo di 300-600mila bg. Ma anche un obiettivo così modesto potrebbe essere una chimera.
Il Venezuela, l’Iran e anche l’Iraq hanno anticipato che si metteranno di traverso. Teheran e Baghdad hanno anche minacciato di far saltare del tutto gli accordi del 2016, che hanno dato vita alla coalizione Opec-non Opec: un esito che potrebbe mettere a rischio il futuro del gruppo, oggi forte di ben 24 Paesi produttori di petrolio, che russi e sauditi puntano invece a trasformare in organismo permanente. Ci sarebbe già una bozza di accordo, che Riad e Mosca vorrebbero sottoporre agli alleati al vertice di Vienna. Ed è possibile che il documento sia usato come merce di scambio per convincere i più riottosi, viste le buone relazioni diplomatiche che Venezuela, Iran e Iraq intrattengono con la Russia.
Iraniani e iracheni potrebbero essere incoraggiati anche dalla prospettiva di spartirsi la quota di mercato che gli Usa si sono conquistati in Cina e che ora rischiano di perdere per colpa delle guerre commerciali. La Cina è diventata la prima destinazione del greggio americano, alla pari con il Canada, con 319mila bg nei primi 5 mesi di quest’anno: volumi che sono pari al 16% dell’export Usa, ma solo al 3,5% dell’import di Pechino, che non avrebbe difficoltà a sostituirli.