La Stampa, 18 giugno 2018
Francesco Baracca il cavallino rampante sulle ali del mito
«È stato un istante… e io dietro e ho urlato dalla gioia». Scrive così Francesco Baracca, asso dell’aviazione italiana, alla madre, la contessa Paolina de Biancoli. Le racconta l’emozione del primo successo in aria: ha visto cadere l’aereo nemico accompagnato da una scia di fumo. Il pilota aveva trascorso i primi mesi dall’entrata dell’Italia nella Grande guerra in frustranti voli di pattugliamento; in seguito collezionerà ben 34 vittorie in combattimenti aerei. Ma il 7 aprile 1916, nei pressi di Gorizia, a bordo di un Nieuport XI, l’ufficiale nato a Lugo di Romagna il 9 maggio 1888 aveva avuto un colpo di genio e attuato un’abile manovra. Aveva puntato in alto il muso del suo caccia monomotore biplano, che lui chiamava affettuosamente «Bébé», e poi era ridisceso all’improvviso mettendosi in coda a un ricognitore austro-ungarico e crivellandolo con 45 colpi. L’equipaggio si salvò. Da vero ufficiale gentiluomo, Baracca sosteneva: «È all’apparecchio che io miro, non all’uomo». Si precipitò quindi al letto dell’ospedale dove era ricoverato il suo nemico:una fotografia lo ritrae mentre dialoga con il pilota coperto di bende.
Questa immagine, assieme a rari filmati d’epoca, si potrà vedere nel ritratto Francesco Baracca, l’aviatore rampante in onda domani alle ore 22,10 su Rai Storia per ricordare i cento anni dalla drammatica scomparsa del pilota, il 19 aprile 1918. La notizia che non era rientrato alla base gettò nello sconforto l’intero esercito italiano. Come disse un altro asso dell’aviazione, Mario Fucini, «era la stessa fiducia in noi stessi che riceveva un colpo: se è possibile abbattere Baracca, cosa potrò fare io per non subire la stessa sorte?».
Immediatamente la 91ª Squadriglia, capitanata dal giovane che aveva voluto al suo fianco i piloti più avventurosi, come Fulco Ruffo di Calabria, venne chiamata con il suo nome. In seguito sono stati numerosi i reparti aerei italiani a lui intitolati, ma anche gli aeroporti, come quello di Roma-Centocelle e quello di Lugo. A lui è dedicato lo stadio comunale di calcio di Mestre e la squadra di football della città natale.
Un mito, quello del giovane Sigfrido, a cui dette vita Gabriele d’Annunzio con la sua commemorazione. Un mito che resiste ancora oggi: gruppi di appassionati della provincia di Treviso costruiscono fedeli riproduzioni degli aerei da lui utilizzati. Però l’immagine che più di tutte lo ricorda è il disegno da lui scelto per connotare il suo aereo: un cavallino nero rampante. La carriera militare di Baracca era iniziata a Modena, all’Accademia a cui si era iscritto contro il volere dei benestanti genitori, ed era proseguita nel 1909 a Pinerolo, alla Scuola di Cavalleria, per concludersi con l’approdo al Piemonte Reale di stanza a Roma. Per questo il giovane pioniere dell’aria fece raffigurare sul fianco del suo aereo l’immagine del cavallo, destinata a diventare il marchio automobilistico più noto nel mondo, quello della Ferrari.
Ma in che modo il cavallino approda a Maranello? Baracca era un innovatore e andava in controtendenza: era stato fedele alla Cavalleria, ma aveva intuito le potenzialità dell’aereo in un conflitto. Gli alti ufficiali, invece, all’inizio della guerra non aveva concesso alcuna fiducia agli aeromobili e li utilizzavano solo per ricognizione. I piloti sparavano con le pistole e i fucili; solo con il procedere del conflitto furono montate le mitragliatrici frontali e venne creato un interruttore che permetteva di sparare senza colpire le pale dell’elica. Nonostante i perfezionamenti e l’exploit della produzione, la moria dei velivoli durante la Grande guerra fu del 77%.
Era facilissimo abbattere gli uccelli di acciaio: ancora oggi sono molte le ipotesi sulla misteriosa morte di Baracca, impegnato in un mitragliamento a volo radente sopra Colle Val dell’Acqua. Il pilota era alla quarta missione nella stessa giornata, la visibilità non era buona, ogni tanto arrivavano scrosci di pioggia. Le ipotesi sulla sua fine vanno dal colpo da terra di un cecchino alla mitragliata di un biplano austro-ungarico, senza escludere il suicidio con un colpo di pistola mentre l’aereo andava a fuoco. Anni dopo, la madre interpretò la volontà del figlio, che teneva al suo cavallino rampante soprattutto come immagine degli straordinari traguardi dello sviluppo tecnologico: donò quell’emblema del progresso al modenese Enzo Ferrari e gli disse: «Metta sulle sue macchine il cavallino rampante. Le porterà fortuna».