il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2018
“Un live di Fossati e la vita mi è cambiata a 40 anni”. Intervista a Pacifico
Gioca con le parole quando le parole non sono solo un gioco, e neanche un mero mezzo, ma uno splendido strumento in mano a un ex “ultraoperaio, cameriere e infine imballatore di videogiochi” che, a ridosso dei quarant’anni, ha scoperto di poter diventare un musicista professionista, e “l’illuminazione” – modello John Belushi nei Blues Brothers – è in parte arrivata “grazie a un concerto di Ivano Fossati”. Lui è Pacifico, nome d’arte di Luigi “Gino” De Crescenzo, classe 1964, quattordici anni di carriera professionistica tra gli spartiti, con una serie non indifferente di successi prima come autore e poi da cantante. E a settembre esce il suo nuovo album.
Ha dichiarato: “Mi piace l’idea del rigore e della distanza dell’artista”.
Davvero?
Sì.
Ammazza che presunzione.
Rinnega?
No, è che a volte uno sorride nel risentire quello che ha detto. Comunque la realtà è che sono un po’ diviso tra il ruolo di autore e quello di interprete, e grazie a questa divaricazione so alla perfezione quanto un artista può sentire l’influenza del pubblico.
Il rischio di compiacere.
Se i Coldplay organizzano una tournée negli stadi, sono obbligati a scrivere pezzi adatti a quella situazione.
Mentre lei?
Amo isolarmi. Se c’è un momento in cui mi prendo sul serio, è quando resto solo con me stesso in una stanza, per scrivere. Ecco, quel momento cerco di proteggerlo, anche se non è sempre possibile.
Si guarda dentro.
La solitudine è bella e anche creativa.
Senza angoscia.
Non sempre. Anni fa ho scelto Fregene (località marina vicino Roma) per trovare la giusta solitudine, ed era inverno…
Il “mare d’inverno”.
E mannaggia a Ruggeri! Sono partito tutto fiducioso, convinto della bontà dell’iniziativa; dopo pochi giorni non vedevo l’ora di entrare in qualunque pizzeria e per abbracciare chiunque.
Troppo estremo.
Mi avevano anche avvertito: “Attenzione in casa non c’è il riscaldamento”. E io: “Tranquilli non potrà fare così freddo”. Momenti congelavo.
Da autore, come si trova a collaborare con gli altri?
I musicisti spesso faticano nel coordinare il proprio animo fanciullesco con la parte adulta, sono momenti differenti, anche di frizione, e la massima “quando li conosci sono spesso una delusione”, non è così lontana dalla realtà.
I riflettori li dominano.
Hanno la necessità di stare sempre in mostra, e quando non lo sono, cercano il modo per tornarci. È necessaria una forte dose di presunzione, la stessa che fa credere di aver scritto o cantato il brano più bello e importante della storia.
Obiettivo: riconoscibilità.
È un elemento fondamentale per la propria esistenza, ho visto artisti non andare al bar per il timore di non essere riconosciuti o ben voluti.
Lei, no?
Ho una carriera strana, sia per limiti che per timidezza. E poi ho iniziato veramente tardi, e questo in qualche modo mi ha protetto: a 18 anni sarebbe stato molto complicato controllare le emozioni.
E la popolarità…
In parte è bellissima, regala un amore apparentemente incondizionato. In realtà ti piazza sotto giudizio.
Un giudizio permanente.
In alcuni casi il mio lavoro è sul “foglio”, sulla parola, in altri casi è di sostegno, amicizia e incoraggiamento per l’artista.
Si è perso la fase “sesso, droga e rock”…
Proprio vero. Prima di questa carriera ho suonato per dieci anni con una band, e con gli altri ragazzi condividevo i sogni di gloria: ricordo una serata a Caserta con noi carichi per un concerto, peccato che il locale era stato chiuso dalla protezione civile.
Lei scrive molto?
Tantissimo, è un esercizio infinito, ho nel cassetto centinaia di canzoni, e spesso quando le riascolto capisco perché non le ho incise: sono solo un prototipo verso brani migliori.
Come si sente quando la sua creazione è in mano ad altri?
Ci sono dei momenti belli, perché sono le voci a dare lo slancio finale al pezzo; e qui scatta l’imprevedibile: magari il brano cantato inizialmente da me, interpretato da altri finisce in lembi emozionali oltre le mie aspettative.
Le piace la sua voce?
Da poco tempo sto arrivando a una sorta di pace, cerco di volerle bene.
Ci ha litigato?
Per decenni ho cantato in falsetto, anche nel primo disco, e sempre per timidezza; adesso è più vicina a come parlo.
Da timido, come ha vissuto i suoi due Sanremo?
Esperienze completamente diverse: la prima volta nel 2004 mi sono sentito travolto, come un guscio di noce in mezzo alla tempesta. E lì ho pure compiuto 40 anni.
Così perso?
Esordiente agli “anta”, non potevo neanche nascondermi o giustificarmi dietro a un’età non matura; non mi sono sentito all’altezza dell’orchestra e mi è dispiaciuto.
E poi?
Con il tempo ho imparato, e quest’anno mi è piaciuto tanto, coperto pure dalla presenza di una grandissima Ornella Vanoni e dall’ottimo Bungaro.
Come si definisce?
Scrupoloso. E dedito alla scrittura.
Dicevamo di Fossati.
Fino a 38, 39 anni non ho mai scritto nulla, forse solo il tema delle superiori e un paio di lettere d’amore. Mentre la musica l’ho sempre seguita e creata, mi sentivo più musicista che paroliere.
Fino a quando…
Sono andato al concerto di Ivano e ho percepito la bellezza nel far combinare parole e musica, quando l’ho incontrato sono rimasto estasiato, lui ha cambiato la mia vita e con una gentilezza disarmante.
A chi altro dire grazie?
Mio padre ha avuto la generosità di farmi sentire protetto. Lui, operaio, firmò sei anni di cambiali per regalarmi la prima chitarra, una Fender Stratocaster che è sempre con me. E oggi quella sensazione cerco di trasmetterla a mio figlio.
Il passaggio finale della sua ultima canzone, recita: “Pensami, aiuterà a dimenticarmi”. Non vale per tutte le situazioni.
Ci sono affetti così grandi che per essere lasciati andare meritano di essere pensati fino in fondo, mentre quando ero giovane dicevo: basta, si volta pagina. Eppure il passato a volte lo rivedi nello specchio, lo senti addosso.
Come le è venuto in mente di scrivere una tesi universitaria sul “delitto politico”?
Eh, davvero. E non ne ricordo neanche una riga. Ho scelto Scienze politiche perché mi permetteva di lavorare.
Lei, cosa vuole?
Con l’età si torna agli aspetti banali, quasi primitivi, quindi prima di addormentarmi recito la mia preghiera laica dedicata alla famiglia, alla penna sul foglio, all’intensità della scrittura, alla possibilità di giocare con mio figlio.
(Canta Pacifico: “Tu che sei parte di me, e lasci fuochi, piccole tracce per riportarmi a casa. Tu che sei parte di me, ultima luce, ultima insegna accesa…”)