il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2018
La terza medicina esiste: poesia e paesaggi aiutano
La modernità in medicina ha contribuito ad allungare di molto la vita media, ma molti sono insoddisfatti e cercano rimedio in antichi rimedi. Assistiamo al ritorno dell’arcaico anche nel trattamento delle malattie. La mia idea è che bisogna diffidare sia delle medicina allopatica che delle cosidette medicine alternative. E comunque bisogna diffidare di chi le mette in contrapposizione. È evidente che una grave depressione può essere pericolosa senza l’uso di farmaci, ma è anche evidente che consigliare lunghe camminate può essere di grande aiuto per una persona depressa.
Spesso si accusa la medicina allopatica che nasce dalla lezione ippocratica di essere troppo positivista, di considerare il corpo come un aggregato di organi, di lavorare sulla lesione, di essere poco attenta al fondo magico in cui siamo bagnati. A queste accuse la medicina “ufficiale” risponde accusando le terapie alternative di essere basate su nulla e di guarire delle malattie che spesso guarirebbero da sole. Allora la questione è l’impazienza. E anche l’idea che abbiamo della malattia. L’ansia può essere spenta con gli ansiolitici, ma può essere vista come un integratore di vivacità intellettuale. Il sintomo nevrotico può essere consegnato allo psicoanalista, ma può essere anche usato come strumento di conoscenza. Noi non dobbiamo mai dimenticare che siamo corpo, dunque natura, ma siamo anche mondo interno, fantasma, fantasia incessante su noi stessi e sugli altri. Allora bisognerebbe dire di cosa parliamo quando parliamo di cure e di malattie. Forse la prima medicina è proprio la lingua, forse l’ospedale che manca è l’ospedale della lingua.
Le persone si ammalano quando reprimono le loro emozioni, quando non riescono a dare una forma linguistica a quello che sentono. E allora poesia e canto sono sicuramente da aggiungere ad agopuntura, reiki, digitopressione, feng shui, ayurveda, medicine dei vecchi indiani d’America, omeopatia, fiori di Bach, cromoterapia, cristalloterapia, aromaterapia, ecc. E allora i segnatori, gli omeopati, gli osteopati, i massaggiatori, gli erboristi, tutta la schiera dei guaritori dovrebbe accogliere nel proprio alveo anche i poeti e i suonatori. La poesia è letteralmente un farmaco, nel senso che per chi scrive è al tempo stesso veleno e rimedio.
Allora ci vuole una terza medicina, qualcosa di simile al terzo paesaggio di cui parla Gilles Clement. La terza medicina non esclude nulla, compreso il fatto che in molti casi non bisogna curare, non bisogna intervenire. Non bisogna medicalizzare. Bisogna ricordarsi che nell’uomo c’è un bisogno di salute e c’è un bisogno di malattia. Ha senso stare bene ma ha senso anche stare male. Kafka una volta scrisse questa frase: “Mi ruppi una gamba. Fu il più bel giorno della mia vita”. Allora la terza medicina può tenere insieme il dermatologo e il paesologo. Guardare la pelle infiammata e guardare il paesaggio. Ci vuole il ministero della salute, ci vogliono gli ospedali, ma ci vorrebbe anche il ministero dello sguardo. Non sappiamo più guardare, non sappiamo più parlare. E ci sono molte malattie accentuate dalla penuria di parole, dalla penuria di sguardo.
Molte malattie entrano nel nostro corpo dagli occhi: bisogna considerare che gli occhi sono un pezzo di cervello a contatto col mondo esterno. La terza medicina dice che ci sono i virus, ma ci sono anche le immaginazioni: un virus entra nel corpo, ma per farci ammalare ha bisogno di una qualche complicità dell’immaginazione. Ognuno di noi dispone di un sabotatore interno. E questo sabotatore è un nemico che spesso proiettiamo all’esterno vedendo tutto il male fuori di noi. Bisogna saperci fare col sabotatore, sapere che vuole il nostro male, ma anche il nostro bene. Nelle storie amorose il sabotatore è sempre all’opera e magari fa in modo che ci allontaniamo da una certa persona che può farci del male, ma anche il bene va allontanato quando siamo interessati a farci del male.
Insomma, dipende dal punto in cui siamo, la questione è vedere, vedersi. Una medicina che non consideri l’esistenza del sabotatore è una cosa povera. E poco importa allora che il farmaco sia naturale o sintetizzato chimicamente. La questione è parlare col sabotatore, senza ricorrere necessariamente alla psicoterapia. La terza medicina considera l’amicizia, la rivoluzione, la preghiera, la gentilezza, l’ansia stessa come forme di terapia. Perfino la morte è una forma di terapia. Noi se combattiamo la morte non saremo mai sani. La morte è un mistero scandaloso che richiede pensiero più che rimozione. Il pensiero della morte esso stesso può essere una forma di guarigione. Perfino la vecchiaia è una forma di terapia: pensare in termini ossessivi di rallentare la vecchiaia rende molti corpi fatuamente giovanili. La cura del corpo si può fare in piazza più che in palestra, si può fare a letto, oltre che sul lettino dell’analista. La terza medicina non ti vuole guarire, ti ricorda che ti deve succedere qualcosa: un amore, un disagio, una letizia, una sventura. Nel paesaggio del tuo corpo spunta una cisti, come spunta un desiderio. Importante è essere nel centro di se stessi, considerare che ogni evento, ogni situazione contiene una qualche forma di perfezione. Tu sei la tua paura e il tuo delirio, sei la tua depressione e il tuo fervore, sei qualcosa e sei niente.