Corriere della Sera, 18 giugno 2018
Il fecondo esilio di Garboli
Questo libro di Rosetta Loy, semplicemente intitolato Cesare (Einaudi), non si lascia incasellare in nessun genere letterario consolidato e immediatamente riconoscibile. È il ritratto di un uomo in tutti i sensi eccezionale come Cesare Garboli; è la cronaca di un amore lungo, difficile e felice; è un saggio sull’arte della critica e sulla sua profonda necessità; è un’utile e perspicace antologia di uno dei più originali e sorprendenti prosatori italiani del secondo Novecento.
Alla fine, se proprio fossi costretto a definire la natura dell’opera della Loy, parlerei di un singolarissimo «romanzo», perché la parola «romanzo», esattamente come «vita», significa tutto e niente. In entrambi i casi, voglio dire quello della vita e quello del romanzo, allo scorrere monotono del tempo si contrappongono alcuni rarissimi incontri fatali, che sono come i perni sui quali ruota l’intero ingranaggio del destino personale.
Come inizia una storia d’amore, quel «tempo nuovo», come lo definisce l’autrice, che, volenti o nolenti, rappresenta una discontinuità così radicale nel tessuto delle abitudini e delle convinzioni che il desiderio si mescola sempre alla paura? Rosetta Loy rievoca una notte d’autunno, la luna piena, il boschetto di meli dai rami contorti nel giardino della casa di Garboli a Vado di Camaiore. Un gesto che si è inciso nella memoria come il primo anello di una catena: «Io mi appoggio a un tronco e Cesare mi tira su il bavero del giaccone per difendermi dal freddo». Dei primi tempi, ricorda «la felicità bruciante, un’esaltazione abnorme, spropositata». Ma è una magia che si accompagna a improvvisi scoppi di furore, che chi ha avuto la fortuna di conoscere e frequentare Garboli ricorda bene: alla «gelosia insensata di Cesare», in queste battaglie ad armi pari, si contrappone quella di Rosetta, «silenziosa, sorda come il battere di un martello su un muro».
Alla fine, il libro trasmette il senso di una relazione affettiva tanto più tenace quanto più fondata su vasti margini di indipendenza: quella «solitudine a due» che forse è la più preziosa delle solitudini. Quello che ci viene raccontato, con tanta grazia e un velo di ironica, delicata reticenza, è l’incontro tra due persone che non sono ancora vecchie, ma non sono più giovani. Che cos’è esattamente la mezza età? Per certi versi, è un’epoca talmente indeterminata che la si potrebbe scambiare per una seconda adolescenza, con la differenza che i giochi del carattere sono già fatti. La roulette continua a girare tenendo tutti con il fiato sospeso, ma la pallina è già caduta nel suo numero.
Molto opportunamente quindi, intrecciando le memorie private al ritratto intellettuale, Rosetta Loy comincia a parlare di Garboli non dall’inizio, percorrendone in ordine cronologico l’evoluzione artistica e intellettuale, ma individuando quello che è stato lo spartiacque fondamentale sia della sua vita che della sua carriera di scrittore.
È il 1978 e Garboli, che l’anno dopo toccherà la meta dei cinquant’anni, è a Siena per provare il Don Giovanni di Molière che ha tradotto per Carlo Cecchi. Il 9 maggio arriva la notizia dell’uccisione di Aldo Moro. Sulla via del ritorno, invece di dirigere la macchina verso Roma, dove vive e lavora per la Mondadori, prende la strada per Vado di Camaiore, dove si trova la casa di famiglia, una specie di eremo all’ombra delle Alpi Apuane, un labirinto di polvere e ricordi. «Cambiai di domicilio», ha scritto in seguito, «come succede a quelli che escono per comprare le sigarette e nessuno li vede mai più». Non era un semplice trasloco, ma una diserzione dalle conseguenze capitali.
A quei tempi, Garboli era già un intellettuale riconosciuto e ammirato. Allievo prediletto di Natalino Sapegno e Roberto Longhi, amico intimo di Elsa Morante, Sandro Penna, Natalia Ginzburg, era già in possesso di uno stile inconfondibile. La stanza separata è il titolo del suo libro d’esordio, pubblicato nel 1969, che raccoglieva una scelta delle sue memorabili recensioni. Ma la fuga dalla città e dal clima angoscioso e soffocante degli Anni di piombo per Cesare Garboli fu l’equivalente, né più né meno, di una seconda nascita.
Quella vecchia e strana casa, dove il tempo sembrava una materia palpabile, divenne la base ideale per le sue spedizioni nel passato, ovvero nel «regno dei morti», come confidò una volta a Corrado Stajano in un’intervista per il «Corriere della Sera». Lo aspettano vent’anni di instancabile lavoro e straordinaria fertilità creativa. Uno dopo l’altro escono i suoi formidabili ritratti: dell’amico Antonio Delfini, il più inclassificabile e bizzarro dei prosatori italiani; di Giovanni Pascoli, trasformato in un personaggio di grandiosa infelicità, degno di un Dostoevskij; di Matilde Manzoni, la figlia negletta del grande scrittore, patetico fantasma suscitato dalla penombra degli archivi...
Per noi che li leggevamo ancora freschi di stampa, quei racconti in cui la più rigorosa filologia si allea all’acume psicologico del grande romanziere erano sempre delle rivelazioni. Non mancavano quasi mai di suscitare discussioni e a volte accese polemiche, come si addice ai frutti di un’intelligenza convinta che il suo ruolo fosse quello di provocare reazioni, di indurre a ripensare tutte le verità più consolidate e rassicuranti.
Parlare di «ritratti» non è una definizione generica per l’opera di uno scrittore come Garboli, sempre animato da un sentimento vivissimo dell’unicità dell’individuo, dell’irripetibile configurazione di circostanze che determinano la singolarità di un’esistenza. Da vero figlio del suo secolo, sapeva bene che la vita non è altro, considerata nel suo complesso e nella singolarità dei suoi accidenti, che una sorprendente e irrimediabile patologia, e che i libri non sono, di questa condizione senza alternative, né le testimonianze né i documenti, semmai le secrezioni, le tracce, tutto ciò che Philip Roth ha splendidamente definito «la macchia umana».
Tra i suoi tanti meriti, il libro di Rosetta Loy ha quello di mettere al centro dell’attenzione dei lettori un percorso artistico e intellettuale animato da una curiosità, da una fame insaziabile di conoscenza dei propri simili, che a volte poteva ricordare l’atteggiamento di un filosofo antico, di un cercatore di verità armato solo della sua lanterna, ostinato a resistere al cinismo del mondo, alla futilità degli idoli sociali.
Oggi è fin troppo difficile spiegare ai più giovani cosa mai è stato quel tipo di scrittore che un tempo si definiva «un grande critico». È una figura così desueta che è come parlare di un ussaro, di un cocchiere, di un campanaro. Eppure, basta leggere le pagine di Garboli che con tanta amorosa sapienza Rosetta Loy ha scelto di inserire nel suo libro per toccare con mano il valore irrinunciabile dell’intelligenza, della comprensione, dello studio paziente e meticoloso, dell’intuizione divinatrice. In tempi inclini alla dimenticanza e al rapido consumo di vacuità prive di durata, questo Cesare è davvero un breviario prezioso, un veicolo di saggezza.