Il Messaggero, 18 giugno 2018
Cent’anni di misteri per Baracca, l’Asso dei cieli
Ucciso da terra da un fante austriaco? Abbattuto da un altro velivolo? Suicida per non morire orrendamente bruciato? Non vi sono e non vi saranno mai risposte a queste domande: un ventaglio di irrisolvibili dubbi che contribuisce in realtà ad alimentare da 100 anni la gloria e la leggenda di Francesco Baracca, l’asso degli assi dell’aviazione italiana morto trentenne il 19 giugno 1918 sul Montello mentre volava rasoterra per mitragliare con il suo Spad le truppe austroungariche.
TRENTA COLPI
Di certezze, negli archivi, ve ne sono poche, per quanto possa sembrare paradossale data l’enorme notorietà del pluridecorato maggiore romagnolo. Baracca riusci ad abbattere in due anni 34 apparecchi nemici quando ne bastano 5 per essere considerati assi. E prima di lui nessun altro italiano aveva vinto un combattimento aereo. Un record che resiste da allora.
Una tecnica sopraffina di volo, un’intelligenza tattica senza uguali, lo scandire della raffiche brevi, non più di 30 colpi, e precise – sparate quasi sempre dal basso rispetto all’avversario al quale tuttavia non si negava mai l’onore delle armi. Baracca e gli altri piloti, poi, non amavano i raid aria-terra per mitragliare i fanti nemici che intanto rispondevano alzando un muro di piombo: compiti assai pericolosi e ritenuti poco degni dai cavalieri del cielo.
Invece il comando premeva per quelle missioni così determinanti anche dal punto di vista piscologico: demoralizzavano il nemico ed esaltavano i fanti italiani nel fango del Piave che conoscevano uno a uno i nomi dei piloti identificabili degli emblemi personali. Baracca, l’eroe della caccia aerea, l’angelo che proteggeva i soldati rincuorati dalla vista del cavallino rampante.
Era un ufficiale di cavalleria, Baracca, giacché all’epoca la giovanissima aeronautica militare operava ancora in seno all’Esercito. Colto, brillante, di ottima famiglia di Lugo di Romagna, campione di equitazione, alto, bello, il romagnolo non passava mai inosservato fra le donne più affascinanti nelle serate eleganti a Parigi (nella Francia della belle époque prese il brevetto di volo) e a Roma. Che noia quando per un breve periodo venne riacquartierato nella monotona Rieti. Per ricostruire le tappe della sua vita vi sono centinaia di lettere alla madre, la contessa Paolina de Biancoli, cugina di Italo Balbo, che nel 1923 donò a Enzo Ferrari il cavallino rampante, l’emblema che il figlio aveva ripreso dall’amatissimo Secondo reggimento cavalleria Piemonte Reale.
«Dalla divisa che indossava... risulta essere effettivamente il Maggiore del Piemonte di Cavalleria comandante la 91a squadriglia aeroplani Baracca Cav. Francesco morto in seguito a ferite d’arma da fuoco alla regione orbitaria destra ed ustioni profonde diffuse per scoppio del motore».
Dall’archivio dell’Aeronautica militare il verbale del riconoscimento della salma di Baracca. Scarne righe redatte solo il 24 giugno: la salma venne ritrovata, a quattro giorni da quel bagliore della sera del 19, nella busa delle rane sul colle del Montello (Treviso), fra i teatri dalla battaglia del Solstizio che l’Italia vinse ribaltando le sorti del conflitto.
Il Messaggero, nel titolare le corrispondenze di Raffaello Garinei (tra coloro che rintracciarono il cadavere) e Rino Alessi, scrisse di suicidio per non cadere nelle mani del nemico, salvo poi smentire nei giorni seguenti quando l’Italia si fermò per celebrare la morte dell’eroe centrato sul viso dal fortunoso colpo di un fante.
Baracca, allora, venne ucciso da terra? E venne colpito il pilota oppure il motore che si incendiò facendo precipitare lo Spad? O vanno creduti gli aviatori austriaci Max Kauer e Arnold Barwig che dissero di avere abbattuto con il loro Pheonix un aereo italiano? Ancora: Baracca, già avvolto dalle fiamme, si tolse la vita sparandosi nell’incavo dell’occhio destro con una pistola di piccolo calibro? Oppure fu l’impatto devastante con il terreno a uccidere l’asso causandogli anche quella ferita sul viso? E perché non è mai stata riesumata la salma?
COLD CASE
«In realtà dobbiamo cambiare prospettiva, niente Csi e cold case, insomma – spiega lo storico dell’aviazione Gregory Alegi, docente alla Luiss, profondo conoscitore di questi scenari – Cento anni fa l’Italia stava combattendo la battaglia decisiva in una guerra che costò la vita a 600mila nostri soldati. Era importante solo riconoscere quel cadavere e celebrare in fretta la morte dell’eroe più famoso. Certo, l’ipotesi dell’abbattimento da terra non ne intaccava la gloria dell’imbattibilità nei duelli aerei, così importante anche per sostenere il morale delle nostre truppe, e certo anche che l’idea del suicidio, per quanto citata dallo stesso Baracca nel suo epistolario, per le autorità non appariva onorevole. Di persona ho volato con un biplano Tiger Moth sul Montello e credo che, sfrecciando così a bassa quota, Baracca non avrebbe avuto il tempo di spararsi. Inoltre gli austriaci, che scoprirono solo in seguito l’identità del pilota abbattuto, non si esaltarono eccessivamente per un successo così eclatante, il che potrebbe avvalorarne la sincerità. Ma di risposte certe non ve ne sono e probabilmente mai vi saranno, un’incertezza che tuttavia garantisce eterna solidità alla gloria di un pilota senza uguali».