Brooklyn (fonte del premiato film onomino del 2015). «Ogni trama inizia da una frase, da un’immagine che diviene ritmo e melodia, per poi espandersi e strutturarsi», avverte lo scrittore, che con La casa dei nomi, appena uscito in Italia per Einaudi, s’imbatte nei giganti della grecità per sondare la natura viva e presente dei miti.
Operazione sorprendente da parte di un celebre cantore di esistenze spesso minute ed emarginate dell’Irlanda moderna. A ispirargli l’impianto della Casa dei nomi, segnala, è stata soprattutto la lettura d’Ifigenia in Aulide di Euripide, «una tragedia che ha trasformato la mia prospettiva sulla vicenda di Elettra — sorella di Oreste e figlia di Clitennestra e Agamennone, così come Ifigenia — facendomela osservare dal punto di vista di sua madre». Facile leggere, in quest’affresco privato percorso da rabbie, congiure, angosce e lamenti, il pessimistico riflesso pubblico di una società svuotata da ogni ideale. È come un viaggio progressivo nella caduta degli dei.
Mister Tóibín, ne “La casa dei nomi” le figure della casata di Atreo si muovono condotte da dinamiche perversamente affettive analoghe a quelle di “normali” famiglie odierne. È rimasto immutato il nucleo relazionale della famiglia?
«Mi sembra che il senso di smarrimento di Oreste e l’alienazione di Elettra siano molto attuali, ma non ho voluto enfatizzare quest’aspetto. Non m’interessava scrivere un manuale di patologie familiari.
Comunque è chiaro che i membri della famiglia di cui parlo non si sentono a loro agio sotto lo stesso tetto».
Cosa l’ha attratta di questa storia?
«Viviamo su un pianeta libero dai conflitti mondiali dal 1945, eppure pieno di guerre civili. La Guerra Fredda ha scatenato lotte tra nord e sud in luoghi quali la Corea e il Vietnam. Altre guerre sono state combattute nei confini di una stessa nazione, vedi l’Irlanda e l’ex Jugoslavia. Da questi due Paesi in particolare io scrivevo articoli, e mi turbava la purezza dell’intimità che sentivo pulsare dentro tanto odio. Era come se persone molto vicine fra loro si uccidessero per vendicarsi di colpe precedenti».
Crede quindi che negli schemi dei rapporti sanguinari fra i parenti delle tragedie greche si celi il germe di tutte le lotte fratricide?
«Sì. Durante la guerra civile irlandese molte famiglie si sono spezzate in due fazioni: fratello contro fratello, padre contro figlio… Anche nella guerra civile spagnola si sono verificate fratture tra congiunti. Nella Casa dei nomi mi sono preoccupato di non mettermi a fare il predicatore, né di scrivere come se fossi il segretario generale delle Nazioni Unite, ma ho esplorato la lentezza e la stranezza con cui nasce la violenza concentrandomi sulle particolarità dei personaggi e sui modi in cui monta il risentimento».
La miscredente Clitennestra s’interroga sulla totale scomparsa degli dei. È una metafora di quanto accade adesso?
«Sappiamo che la forma del romanzo, dal Diciottesimo secolo in poi, non lascia molto spazio a Dio né al sovrannaturale. È più condizionato dai bisogni, dai desideri e dalle azioni degli umani. Tuttavia è evidente come lo sfondo del mio libro, che considero totalmente contemporaneo, sia dominato dall’idea che Dio è stato messo in ombra nell’Europa di oggi».
Perché fa parlare Clitennestra in prima persona? Anche Elettra usa l’io narrante, al contrario di Oreste.
«Oreste è troppo giovane e inconsapevole per possedere la propria voce: non ha alcuna strategia. Invece sua madre e sua sorella sono sospinte dalle rispettive, potenti strategie».
Il rapporto tra Clitennestra e il suo amante Egisto è cupamente voluttuoso mentre quello fra Oreste e Leandro è tenero e solare. Lei è un esponente molto attivo del movimento Lgbt: sembra che la sua identità omosessuale influisca radicalmente sulla visione della coppia.
«Mentre scrivevo il libro lo sentivo così colmo di negatività e violenza da volerlo bilanciare con l’inserimento di belle immagini d’amore. La sezione su Oreste e Leandro non si modella su alcun mito: l’ho inventata solo per rispondere a quell’esigenza. Il legame tra i due giovani è dolce e innocente: l’ho descritto non per esaltare le gioie di un’intesa omosessuale, ma per creare momenti di luce nel buio. Avrei potuto raccontare in maniera altrettanto armoniosa un amore uomo-donna».
Ha avuto riferimenti letterari nell’impresa di trasformare gli antichi in creature ravvicinate?
«Mi è stato utile il romanzo di David Malouf Ransom (in italiano Io sono Achille, ndr) che però, rispetto a me, è molto più fedele ai greci. Ma a farmi ripensare a quei caratteri in un’ottica non distante dal nostro mondo sono state soprattutto attrici come Fiona Shaw, in grado d’interpretare le eroine classiche rendendole contemporanee.
Devo molto anche alla Medea di Pasolini con Maria Callas».