la Repubblica, 18 giugno 2018
La forza della Lega
Il M5S sta pagando in termini sempre più onerosi l’ambizione utopistica con la quale è nato: praticare la democrazia parlamentare senza diventare un partito organizzato; di più, fondare il Parlamento sulla democrazia digitale, identificata con quella diretta. L’organizzazione, secondo la celebre definizione che ne diede Robert Michels nel 1911, è l’arma dei deboli contro i forti e nella democrazia elettorale i deboli sono i molti perché disaggregati. Il partito organizzato è il loro salvagente, anche se li deruba dell’eguaglianza di potere esponendoli al dominio dell’oligarchia. Il M5S ha portato all’estrema conseguenza lo spasimo contro l’organizzazione che dopo Tangentopoli ha posseduto un po’ tutti i movimenti politici, spinti a cercare soluzioni liquide, leggere e “democratiche”. Il partito non-partito mostra tutta la sua debolezza proprio nel momento in cui acquista potere di governo. Forte quando era all’opposizione e l’argomento “contro” bastava a dare la linea, è debole nel relazionarsi con l’alleato leghista, che pure porta meno voti. La Lega è un partito a tutti gli effetti, con una ideologia dichiarata di destra, non oltre la destra e la sinistra ( il “sovranismo”), con un obiettivo che dice di perseguire (“prima gli italiani”) e un’organizzazione strutturata centrale e periferica, luoghi fisici, membri e riti; soprattutto una leadership che incarna la rappresentanza di tutto il partito e delle sue ragioni ( che possono non piacere, ma sono definite e non ambigue). Una coalizione tra un partito di questo tipo e un partito non- partito si traduce fatalmente nel dominio del primo sul secondo, ovvero in una condizione che assomiglia a un dominio egemonico più che a una coalizione. La politica del governo a guida Conte è ogni giorno che passa la politica del partito di Salvini, il quale copre ruoli rappresentativi opposti: quello di partner e quello di capo. La Lega mostra una solidità con la quale il partito digitale non ha la forza di competere; dà la linea politica al governo e, presumibilmente, raccoglierà i frutti, a spese dell’alleato. Certo, l’essere un partito non è l’unica forza della Lega; il carattere del leader non è un fattore secondario. Ma anche in questo caso, è la politicità della leadership l’elemento distintivo, un fattore che rinvia alla forma partito. Un leader senza identità politica è un leader debole. E Salvini ha una identità politica spiccata e un’ideologia nazionalista chiara, che unifica la sua base politica e allarga ogni giorno il consenso dell’audience. L’essere né di qua né di là, come il M5S ha sempre cercato di essere per non farsi partito, il raccogliere consensi a destra e a sinistra, lo fa essere un cacciatore di voti che, una volta al governo, è troppo indifferenziato ed eterogeneo per risultare efficace e visibile. La linea politica della Lega si presta inoltre alla promozione di azioni simboliche e immediatamente visibili. Le politiche del M5S – reddito di cittadinanza in testa – impiegheranno mesi per materializzarsi. Del resto le deleghe che Di Maio ha accorpato prefigurano tempi lunghi di attuazione. Al contrario, quelle di Salvini hanno l’operatività delle politiche di emergenza, proprie del ministro degli Interni. E così, il destino dei disperati che cercano di attraversare il Mediterraneo è l’occasione fortunata per mettere in atto lo slogan, «prima gli italiani». Il muso duro con gli immigrati è già politica di protezione degli interessi nazionali. A questo si aggiunga la capacità di Salvini di giocare su due piani: mentre respinge i disperati (e blocca le Ong), attacca i leader europei che molto hanno detto e poco fatto: lo si può criticare per la prima scelta, ma come criticarlo per la seconda? Il consenso della Lega si allarga e dà identità al governo; il M5S segue a ruota, sempre meno partner e più subalterno. Nato con la promessa di essere «l’avvocato degli italiani», non è improbabile che il presidente del Consiglio debba farsi avvocato dei 5S.