Il Messaggero, 17 giugno 2018
In morte di Antonio Giuliano
La prima volta che lo incontrai, mi propose un catalogo in tedesco, «lingua che, logicamente, lei legge e comprende benissimo». Gli spiegai di no. Si impettì, quasi sdegnato: «Ma allora, come fa ad occuparsi di archeologia?». Risposi che ero un giornalista: andavo da chi di antichità sapeva; e si acquietò. Nel tempo, eravamo divenuti amici. Antonio Giuliano, romanissimo, 88 anni, tra i maggiori eruditi e studiosi del remoto, ieri se ne è andato. Ha insegnato a Genova, e a Tor Vergata («perché mettermi in quel ginepraio che è La Sapienza?»). Tanti ne ricordano la semplicità è l’umiltà, la cultura e, insieme, l’essere sempre e comunque assai esigente. Il frutto del suo sapere l’ha lasciato ai Lincei, di cui era accademico: 800 volumi, 4 mila estratti, 20 mila foto e microfilm, ottomila sue foto archeologiche, e altre 12 mila dedicate ai disegni dall’antico.
Se ne è andato portando con sé un paio di crucci: per vari decenni, ha sperato di poter catalogare la collezione di statuaria greco-romana dei Torlonia, invisibile ormai da generazioni; e considerava il suo tempo ormai superato: si sentiva un po’ un pesce fuor d’acqua. Era stato allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli, e intimo di Federico Zeri; una sua biografia l’aveva raccontata a Francesco Solinas: sono duecento pagine. Un giorno, mandò una Memori ai Lincei, su Roma: Decore nudata, prostrata iacet, non serve tradurre; piena zeppa di citazioni, senza nessuna fonte: «Ai Lincei, ci stanno gli studiosi: dovrebbero conoscerle. Se no, me lo si chiede al telefono; ma fare da bignamino per le frasi famose, per cortesia, proprio no».
GLI STUDIOltre all’antico, ha studiato il periodo napoleonico, e Leopardi: ne era intenditore profondo, e sorprendente. Gli erano assai cari gli studi normanni e federiciani. Aveva il pregio di tanta ironia. Un giorno, flanellando davanti a Villa Borghese, si ferma: «A Fine Ottocento, Roma possedeva 75 mila statue; lo scrive un amico di Goethe, parlando di Winckelmann. Oggi ne restano settemila, di cui tremila in Vaticano». Come si era ridotta e involgarita questa città, proprio non gli andava giù. A un certo punto, cercava di farsi dare la direzione della Scuola di Atene (anche per andarsene un po’): un’altra sua speranza delusa. Diceva di Paolo II Barbo, «strangolato dai demoni celati tra le gioie che collezionava avidamente»; e del principe Ludovisi che mostra a Mommsen i progetti del suo nuovo quartiere: «Non sapevo che a Roma i nobili mostrassero in pubblico le loro pudenda», era stata la fulminante risposta dello storico. In Francia, aveva scoperto i microfilm con tutti gli atti della vendita Borghese: 800 sculture cedute a Napoleone. Chiunque ne avrebbe tratto un libro. Lui li ha guardati un po’, e poi mandati ai Lincei: «Troppo vecchio per studiarli approfonditamente, lo farà qualcun altro». Dal 1981, ha confezionato Xenia, rivista semestrale di antichità; e ha catalogato le sculture del Museo archeologico romano. Gli piaceva andare per mercatini, a cercare curiosità, specie librarie ma non soltanto, che gli mancassero. Stamattina, avrà una camera ardente all’ospedale di Santo Spirito; domani alle 9 l’ultimo saluto a San Lorenzo in Lucina. Del resto, lui è sempre stato mattiniero: alle 8 lo si trovava già nello studio. Finché ha potuto. Accudito dalla moglie, Giulia Fusconi, studiosa come lui. Che ora la terra gli sia non lieve, ma – per favore – lievissima.