La Lettura, 17 giugno 2018
Prima e dopo Trump. Così è cambiato l’«infotainment»
Before Trump. C’è stato un lungo periodo in cui la cultura americana liberal ha saputo trasformare la politica in spettacolo, in intrattenimento. E non era una distrazione dalla politica, ma l’essenza stessa dell’attività politica, un mezzo per comprendere o elaborare le decisioni della vita sociale. Nessuno si sognava di contrapporre la vita vera alla vita mediatica o di accusare la televisione di aver tradito la realtà trasformandola in irrealtà. Nessuno avrebbe mai pronunciato uno slogan del tipo «se la tv tradisce la vita, spegni la tv, non la vita».
Quando ha inizio questa età dell’oro della politica in tv? Quando i grandi network (Abc, Cbs, Nbc) cominciano a perdere la loro funzione di totem dell’informazione mentre tramontano i Walter Cronkite (dava la buonanotte ai suoi «seguaci» con una formula veridittiva: «Così stanno le cose»), i Dan Rather, i Tom Brokaw, i Peter Jennings. Insomma, quando, la notizia aveva una faccia, nei tg e nei programmi di approfondimento. A quel tempo, la certezza che una cosa detta in tv era vera – l’ha detto la tv! – valeva in tutto il mondo occidentale. Ma all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, la tv via cavo diventa sempre più accessibile e i grandi network, di fronte alla possibilità di scegliere fra cinquanta canali, in onda 24 ore su 24, capiscono che il loro ruolo non è più al centro della scena mediatica. In quella che Amanda D. Lotz definisce l’«era post-network», molte cose mutano: tecnologie, sistemi di distribuzione, i linguaggi e le narrazioni. Cambia anche la «political tv».
A questo interessante tema, Chuck Tryon, professore alla Fayetteville State University (North Carolina), dedica un libro ora tradotto anche in Italia: Political Tv. Informazione e satira, da Obama a Trump (minimum fax). «Anziché chiedersi – scrive Tryon – se questi programmi di informazione e di intrattenimento influiscano sul pubblico, il libro si concentra sul modo in cui la televisione politica struttura le modalità con cui pensiamo al sistema politico più in generale. In questo senso, la televisione è un modo di “dare senso” alla politica».
Sì, ma quale televisione? Quella che mescola i generi, quella che smantella la divisione fra notizie e intrattenimento: «Di conseguenza, le notizie sono state riconcettualizzate non solo come potenziale fattore di profitto, ma in particolare come forma di infotainment dotata di un brand, dedita non tanto a informare gli spettatori sugli eventi del giorno quanto a tenerli sintonizzati su una comunità raccolta intorno a valori e a timori politici condivisi». Tryon cerca di capire la forza che hanno avuto programmi di attualità in chiave comedy come The Daily Show, The Colbert Report, Real Time with Bill Maher, di sketch comedy ricche di contenuti politici, o persino di sitcom ambientate all’interno della cultura politica di Washington come Veep e The Brink.
Tramite il satellite o internet anche noi possiamo apprezzare Jon Stewart, Stephen Colbert, Jimmy Fallon o John Oliver e in genere gli show di seconda serata. Il late night è infatti il coronamento della lunga giornata televisiva americana, magari non eccezionale negli ascolti ma fondamentale per il prestigio della rete (è la tv to talk about, e alle volte se ne parla per anni...). Il late night diventa un appuntamento da non perdere, una macchina di narrazioni anche politiche, cruciale soprattutto per i giovani (che nel frattempo hanno abbandonato i programmi della tv generalista). Il conduttore è anche un media critic, non si occupa solo di contenuti ma anche di linguaggi, di come i tg tradizionali porgono le notizie, di fake news, di cultura politica. Scrive Tryon: «Il blocco di notiziari satirici su Comedy Central è stato applaudito come una specie di antidoto ai fallimenti dei tg politici. In particolare la squadra Stewart-Colbert è stata lodata per la capacità di coinvolgere il pubblico giovanile, altrimenti descritto come completamente indifferente alla politica. Cosa ancora più importante, sembrava che guardare i notiziari satirici, per colmo dell’ironia, corrispondesse a una maggiore conoscenza politica. In altri termini, le persone che guardavano i programmi come The Daily Show e The Colbert Report quasi invariabilmente erano più preparate a rispondere correttamente a domande elementari di attualità rispetto a coloro che guadavano i programmi di informazione».
Insomma, se ai late show aggiungiamo anche il Saturday Night Live («Live, from New York, it’s Saturday Night!»: dall’11 ottobre 1975 questa frase è la formula magica con cui, alle 23.30 del sabato sera, si apre l’appuntamento televisivo di cui nessuno si è mai vergognato, nemmeno i politici che sono stati presi di mira), le straordinarie imitazioni di Tina Fey, le serie che si sono occupate di politica (e di educazione civica, di cultura della sorveglianza) come West Wing, Scandal, House of Cards, The Good Wife, 24, Homeland, The Americans, ebbene grazie a queste altre forme di narrazione Tryon era convinto che l’era post-network non soltanto intrattenesse e informasse gli spettatori, ma li incoraggiasse anche a un maggiore coinvolgimento nell’attività politica, contribuisse a promuovere innovative forme di alfabetizzazione mediale. Però...
After Trump. Però a un certo momento compare sulla scena pubblica The Donald, la variante non prevista. La comunicazione politica subisce un processo di semplificazione, dove prevalgono le tifoserie, gli insulti, le fake news. Il giornalismo americano conservatore o scollacciato fa il suo mestieraccio con comprensibile e rinnovato entusiasmo, alle prese con il fatto ossessivo e disgraziato della presidenza arancione, con tutti i suoi paradossi, i suoi mal di pancia. Con il web, la disintermediazione diventa pane quotidiano e la politica non prova alcuna vergogna a darsi in pasto ai social, soggiogata più dalle emozioni e da uno storytelling «alla buona» e divisivo che dalla forza della satira, dei ragionamenti e delle idealità.
D’improvviso si scopre che c’è anche un’America che giorno dopo giorno vive ancora il mito della frontiera, maneggia armi da fuoco come fossero giocattoli, affronta condizioni estreme per darsi una ragione di vita. Con il senno di poi è facile dire che questa è l’America che ha votato Donald Trump. Anche Tryon è costretto ad ammetterlo: «Molte mie conclusioni più fiduciose sulla televisione politica sembrano ormai appartenere a un’epoca completamente diversa». Élite contro popolo? Talk show contro late show?
La scorrettezza di Trump, fasulla e non credibile, ha vinto sul piano linguistico rimodulando la grammatica della comunicazione politica. Il suo linguaggio rozzo, sboccato, semplice («America Great Again») ha occupato lo spazio della comunicazione in modo assoluto perché ha colpito l’avversario, la Clinton, proprio sul fatto che lei era una professionista, establishment, politicamente corretta nei confronti di tutti i bisogni e i disagi di quel Paese, regina degli apparati. Hanno vinto i reality, hanno vinto i talk, ha vinto la deregulation linguistica del web.
Anche in Italia?