La Lettura, 17 giugno 2018
L’eterna primavera di Fiorucci
Ci sono pochi autori del mondo della moda amati come Elio Fiorucci. E non solo perché lo spirito visionario di quest’uomo, che ha eletto a logo due angioletti, ha condizionato lo sguardo di intere generazioni ma perché, davvero, Fiorucci era un uomo speciale. Basta pensare a un dettaglio della sua esistenza: durante un pranzo benefico dell’Epifania, l’elegante hotel Principe di Savoia di Milano era affollato da 200 clochard. Tra i volontari, a servire i tavoli, c’era anche Elio Fiorucci. Ma a differenza di altri, la missione la svolgeva a modo suo: non serviva solo il risotto, si chinava a lato di ogni commensale e quasi inginocchiato scambiava due parole. Autentico contatto umano. Quando lui si rialzava, il senzatetto, senza neanche rendersi conto di chi fosse quel signore così gentile e affabile, sorrideva. E con lui chiunque ne incrociasse lo sguardo.
Elio Fiorucci era anche questo. Anzi, forse era proprio questo: un uomo generoso, certo, un esploratore curioso, dirompente nel suo voler scardinare le regole (e anche per questo riconosciuto nella sua genialità), ma l’elemento che forse disegna meglio il suo carattere è che era un uomo animato dalla volontà di essere vicino alla gente comune. Non si comportava come uno stilista. Era più un antropologo che interpretava e decodificava i linguaggi di un’epoca. Lo si coglie nella mostra che ha come titolo proprio Epoca Fiorucci e che si inaugura il prossimo 21 giugno a Cà Pesaro a Venezia, sotto la guida curatoriale di Gabriella Belli e Aldo Colonetti (con Elisabetta Barisoni) e con uno spettacolare e coloratissimo allestimento di Paolo e Michela Baldessari che riproduce la magia dei suoi celebri negozi.
Un’epoca in mostra, dunque. Ed è proprio così, se si pensa a Elio Fiorucci come a un vero creatore di mondi che hanno segnato un preciso momento storico: anni in cui il suo stile irriverente, trasgressivo, ha offerto una chiave estetica talmente riconoscibile da diventare identità culturale, strumento per un processo di appartenenza sociale, codici estetici per nuove tribù. L’Epoca Fiorucci è tutto questo. Voluta dalla direttrice dei Musei Civici di Venezia, Gabriella Belli, su sollecitazione di Aldo Colonetti e Paolo Baldessari, la mostra indaga il «fenomeno Fiorucci» nella sua complessità di relazioni tra design, arte, architettura, fenomeni sociali. Ovvero, quella moda democratica e popolare che con magliette, giacche, gonne dai colori sgargianti della tradizione Pop ma soprattutto a prezzo accettabile, rivoluzionò il sistema («Fiorucci è l’uomo che ha distrutto la moda», scrisse Enzo Biagi) interpretando comportamenti e abitudini delle giovani generazioni dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli Ottanta.
Sottolinea Gabriella Belli: «Un vero e proprio tsunami che cancellò in pochi anni quel che ancora rimaneva delle lavorazioni sartoriali artigianali per offrire alla generazione dei teenager, non solo ragazzi e ragazze ma anche giovani e meno giovani signore, vere occasioni di indossare pillole di trasgressione, capaci di affrancare la moda dal perbenismo dell’abito borghese, accompagnando così il progresso di almeno tre generazioni di donne (e uomini) che in quegli anni si battevano come leonesse per la parità dei diritti e per l’autodeterminazione». Se la moda rappresenta una narrazione sulle oscillazioni del gusto e sulle trasformazioni del costume (e quindi se ogni racconto della moda è un racconto politico) questa mostra assume, ancor di più, il valore di una necessaria riflessione su una stagione in cui si è compiuta una felice e colorata rivoluzione che ha avuto anche un’allegra e potente influenza politica.
Così, guardando scorrere le immagini del mondo di Fiorucci, i suoi primi monokini che davano libertà al corpo e irritavano i benpensanti leggendo gli slogan anche teneri che accompagnavano un perizoma («Per essere alla moda basta poco») o le felpe con la scritta «vera plastica», oppure guardando le pubblicità con i fondi piatti (come i quadri di Warhol) e con le donnine ripetute che evocano la forza ironicamente erotica di Bettie Page, si comprende davvero come Fiorucci sia stato un catalizzatore di linguaggi e un anticipatore di tendenze capace di scardinare vere egemonie culturali. Lo ricorda ancora Belli: «Indossare un capo Fiorucci a quell’epoca significava dare una nuova rappresentazione del proprio corpo e della propria bellezza, significava rifiutare i modelli delle nostre madri, significava aggiungere alla nostra vita di giovani combattenti il giusto tono di colore e la magia delle figlie dei fiori, zoccoli di legno, galosce rosse e gialle, gonne lunghe fino ai piedi e pullover oversize, jeans ricamati e attillati da togliere il fiato, che il genio di Oliviero Toscani seppe immortalare in poster indimenticabili».
Il volume che accompagna la mostra (dedicato al vecchio amico Gillo Dorfles) presenta interviste molto illuminanti. Tra le tante, solo per elencare qualche nome, quelle ad Alessandro Mendini, Michele De Lucchi, Andrea Branzi, Floria Fiorucci, Gisella Borioli, Giusi Ferrè e Italo Lupi che supera il suo pudore e rivela di essere l’autore del logo con i due piccoli cherubini: «Proposi di intraprendere una scelta totalmente diversa, opposta a quella percorsa da Fiorucci nelle sue campagne, proponendo l’immagine di due angioletti vittoriani in contrasto». Poi, nel colloquio con Oliviero Toscani, si ricorda una fotografia che fece storia, un Babbo Natale che faceva l’amore con una modella: «Nella prima versione aveva i pantaloni abbassati, gli si vedevano le gambe nude. Poi scattai la versione con i pantaloni su. Mi ricordo che quando presentai a Elio la prima fotografia proruppe con un “Uau, che bel Babbo Natale!”. Alla fine abbiamo optato per la seconda, purtroppo...».
Fiorucci era un anticipatore, dialogava con gli artisti: (Warhol, Jean-Michel Basquiat, Keith Haring, Madonna) collaborava con architetti e designer (Amalia Del Ponte, Ettore Sottsass, Alessandro Mendini, Michele De Lucchi, Italo Lupi, Andrea Branzi). I suoi spazi, come quello di Milano, erano aperti al mondo, anzi sembrava che il mondo fosse lì dentro. Nel nome di una moda alla portata di tutti. Eppure, mai avuta una grande fortuna economica. Lo sottolinea Toscani: «Certo, se c’è una sola cosa peggiore dell’arrivare in ritardo, è arrivare in anticipo. Chi arriva per primo è fregato. Chi arriva in ritardo invece guadagna: copia e perfeziona gli errori».
Fiorucci per Colonetti è un vero arcipelago da esplorare. E questa mostra pensata e disegnata magistralmente con i colori e lo stile Fiorucci rappresenta un primo elemento di analisi di un fenomeno che Gillo Dorfles, in una delle sue ultime testimonianze, celebra come un Duchamp della moda: «Nel suo lavoro prevaleva un atteggiamento concettuale, tradotto poi, immediatamente, in un prodotto ma soprattutto in un sistema di segni, di oggetti, immagini, vestiti sempre diversi e nello stesso tempo riconducibili alla medesima fonte progettuale». E ancora: «I suoi lavori rappresentano soprattutto un atteggiamento interpretativo e direi anche “esistenziale”, nei riguardi della vita di tutti i giorni. Tutto questo pensato e realizzato con leggerezza, senza alcun intento ideologico ed educativo, perché era poi sempre e soltanto il consumatore finale a diventare protagonista del cambiamento». Forse anche Ennio Flaiano, aveva capito il potere rivoluzionario di Elio Fiorucci quando nel suo Frasario essenziale del 1986 sentenziava: «Aspettavamo la fine dell’arte, è arrivata la fine della moda».