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 2018  giugno 17 Domenica calendario

Rogers: nuove piazze per città civili

La casa di Richard Rogers parla per lui. Da fuori è una palazzina georgiana come le altre nel cuore di Chelsea; all’interno, è uno spazio aperto dove sono stati aboliti i muri e solo le scale metalliche conducono da un soppalco all’altro. Grandi vetrate fanno combaciare lo sguardo col parco antistante, mentre sulle poche pareti superstiti spiccano i Mao di Andy Warhol e altre opere d’arte contemporanea. Lui se ne sta appollaiato in cima, vestito di una camicia di un turchese impossibile e con sotto t-shirt e scarpe arancioni fosforescenti: i colori che ha portato nelle sue costruzioni e che ha ereditato dalla madre Dada, artista triestina, che si vestiva così per combattere il grigiore della Londra degli anni Quaranta.
Rogers, a 85 anni, è un grande vecchio dell’architettura contemporanea. I suoi edifici sono diventati icone culturali: dal Centro Pompidou di Parigi, concepito assieme all’amico Renzo Piano, alla sede dei Lloyd’s fino al Millennium Dome di Londra. Un cammino che ha ripercorso in un libro, Un posto per tutti. Vita, architettura e società giusta, che questa settimana viene a presentare in Italia. Un volume che prende spunto dalla retrospettiva del 2103 alla Royal Academy, che ripercorreva la carriera di Rogers: e il cui titolo, Inside Out, da dentro a fuori, riassumeva il suo sigillo creativo. Il libro è un connubio di autobiografia e manifesto politico, intreccia i progetti di una vita con le battaglie contro funzionari politici e persino contro il principe Carlo, fino al ricordo di luoghi e persone con cui il grande architetto si è confrontato.
Il filo conduttore dei suoi lavori, come sottolinea nel libro, sono gli spazi aperti... 
«A partire da questa casa in cui vivo, sono sempre stato in un open plan. Nel mio studio lavoriamo in 200 ma non ci sono muri: invece abbiamo una piazza. E anche quando ho fatto il Centro Pompidou, assieme al mio amico Renzo Piano, col quale mi sento ancora tutti i giorni, avevo Siena in testa. Doveva essere un posto per tutti, come scrivo nel mio libro, per giovani e vecchi, poveri e ricchi, di ogni religione e nazionalità. L’idea è quella di avere non una città divisa, ma una città civile». 
Lei parla anche di una città compatta e sostenibile. Che cosa intende con questo? 
«Penso innanzitutto a come affrontare il cambiamento climatico, che è il nostro problema più importante. E il primo passo è avere città più compatte: dove non c’è bisogno dell’automobile, ma dove si può andare in bici o in metro. Nell’edificio che ho appena terminato qui a Londra sono previsti solo 12 posti auto: l’idea è avere una città compatta, dove si può camminare, si può parlare e ci si può conoscere. Non le città che si disperdono nella campagna». 
Lei ha lavorato in tanti posti nel mondo. Qual è il luogo che riflette meglio le sue aspirazioni?
«Barcellona è la città migliore. Lì non si può costruire al di sopra degli otto piani. È la città più densa d’Europa, come Manhattan, ma la densità non ha a che fare con l’altezza. Ha grandi strade, è veramente un posto civile. Ma ci sono esempi anche altrove: a Bogotà hanno fatto un gran lavoro con le zone più povere, hanno aperto strade ciclabili e tranvie. E poi Portland, in Oregon: hanno chiuso le grandi strade, aperto piazze, ne hanno fatto un posto per tutti. È qualcosa che si può fare: solo in Italia è difficile». 
A proposito di questo, lei fra qualche giorno sarà a Venezia e Firenze. Che cosa proporrebbe per queste due città?
«Il problema di Venezia sono le grandi navi da crociera: e tra l’altro quella gente se ne resta lì a bordo, non c’è neanche uno scambio di cultura. Bisogna vietare l’ingresso alle navi, ci vogliono piccole barche per portare le persone in città. Con Firenze è più difficile: ho fatto uno studio per realizzare strade pedonali sui Lungarni, posti dove si possa camminare avendo di fronte viste bellissime. Si deve buttare giù un muro? E finiamola, facciamolo! È difficile non cambiare, noi abbiamo bisogno del cambiamento». 
Lei a Firenze ci è nato: che cosa ha portato dell’Italia nel suo lavoro?
«Sono nato con la vista della cupola del Brunelleschi: non c’è città più bella di Firenze. E non c’è dubbio che ho portato con me l’ispirazione italiana: in primo luogo la piazza italiana, come luogo sociale dove si scambiano idee. Seimila anni fa le prima città erano sorte come posti dove si svolgeva il mercato degli animali ma anche come luoghi dove parlare e scambiare idee: era business ma anche cultura». 
Anche la sua origine familiare ha contato.
«Ho scelto i genitori giusti: mio padre medico italiano di origini inglesi, mia madre italiana e ceramista. Se metti un medico assieme a un’artista, ottieni un architetto!».
E come si è trapiantata in Inghilterra questa eredità?
«Ho avuto meno problemi con lo shock del nuovo. In Inghilterra molti ce l’hanno: anche oggi, dal principe Carlo in giù, tanti pensano che l’Ottocento sia perfetto. Ma tutta l’architettura, come tutta l’arte, è moderna nel suo tempo. Anche se in questi ultimi vent’anni molto è cambiato: prima la Tate Modern era un caso unico, ora tutti vanno a vedere l’arte moderna. Gli italiani comunque sono più ricettivi, forse perché hanno una storia più lunga». 
Lei ha collaborato con i sindaci di Londra, da Ken Livingstone a Boris Johnson... 
«Londra è arrivata a un punto molto alto: il problema è dove si va ora, specialmente con la Brexit. Dopo la guerra Londra era una città malata, oggi non lo è più. Ma il suo problema non è l’architettura, che non è meglio o peggio dei posti migliori del mondo. Il problema è che Londra è troppo grande rispetto agli altri centri urbani inglesi, e questo non è sostenibile».
Il suo libro è anche una sorta di manifesto politico.
«Perché la vita è questa. Abbiamo tutti un ruolo civico. I greci, quando erano invitati a diventare cittadini, dicevano: prometto di lasciare questo Paese meglio di prima. Questa per me è una cosa molto civile: la cultura fa parte della vita civile».
Un’architettura democratica può cambiare il mondo?
«C’è la possibilità di vivere meglio rispetto a come viviamo. Mi piace l’espressione architettura democratica. Se si sta in un bel posto anche lo spirito sta meglio: l’architettura è qualità della vita».