La Lettura, 17 giugno 2018
«È l’umanesimo il disastro dei disastri». La sfida di Ghosh
L’umanesimo è un disastro», sostiene Amitav Ghosh. Dobbiamo romperne la seduzione, l’incantamento. Lo scrittore indiano continua a riflettere sui temi che ha affrontato in La grande cecità e, all’inizio di un soggiorno italiano che durerà diverse settimane, ha uno sguardo che tiene dentro ambiente, migranti, le crisi della politica in Italia e in Europa. Una prospettiva senza confini. «Il mutamento del clima – dice Ghosh – è la maggior minaccia singola che l’uomo deve affrontare».
Il mutamento climatico è la crisi che ingloba tutte le altre?
«Sì, basta guardare l’Europa e l’Italia: dietro la crisi istituzionale, dietro la crisi politica, c’e il movimento migratorio. Ovunque ti volti, vedi l’impronta del mutamento climatico. Anche la guerra in Siria ha il marchio del climate change: non dico che sia stata provocata dal mutamento climatico, ma quello è comunque lo sfondo. Siamo abituati a considerare l’Asia il continente più esposto ma io penso invece all’Europa. Che è colpita direttamente e continuerà a esserlo in modo anche peggiore. Il Mediterraneo è la regione più vulnerabile. Mi viene in mente la Sicilia, con le località dove l’acqua è disponibile solo alcune ore del giorno. Le riserve idriche si stanno assottigliando. Non migrano solo le persone: migrano anche gli ecosistemi. Il Nord Africa, inteso come ecosistema, va a nord».
Ci spiega il legame fra mutamento del clima e crisi siriana?
«È a causa di una spaventosa siccità che intorno al 2008 molti contadini si sono spostati nelle città e il governo siriano non è stato in grado di affrontare la situazione. Ripeto: il mutamento climatico non è la causa primaria del disastro siriano, ma ne è il contesto più ampio. Molti dei migranti che attraversano il Mediterraneo sono spinti dalla siccità del Sahel o del Sudan e delle regioni circostanti».
A quando risale questa sua consapevolezza?
«Io sono solo un romanziere ma la prima presa di coscienza sul tema risale a un romanzo che ho scritto nel 2000, Il paese delle maree, che era ambientato in Bengala. Ma adesso penso che il problema sia esattamente quello che noi chiamiamo umanesimo, l’umanesimo per come ha preso corpo in Italia tra Quattro e Cinquecento, con la sua pretesa di mettere l’uomo al centro di tutto, alle spese di tutto il resto. E questo si è dimostrato il disastro maggiore. Per questo io mi definisco un anti-umanista».
Spesso collochiamo scienziati e umanisti su due versanti opposti.
«Gli scienziati ci informano sul tema del cambiamento climatico, ma la questione viene subito inquadrata in termini tecnici, scientifici, appunto. Questa tuttavia non è una questione scientifica ma radicalmente culturale. Coinvolge la produzione, il consumo. Il disastro sta nel farne una faccenda scientifica, mentre invece siamo di fronte a un problema radicato nell’uomo, nei suoi desideri, nelle sue conflittualità, nella politica. Purtroppo ci sono molti scienziati che ci incoraggiano ad affrontare la situazione riducendola a una somma di fatti scientifici e a pensare di poterla risolvere grazie alla tecnologia. Invece no».
Le opinioni però divergono, no?
«Gli organismi preposti ad affrontare questa crisi sono guidati da gruppi di cosiddetti esperti che poi sono gli stessi che hanno spesso l’ultima parola nelle decisioni economiche. Sono esperti in occultamento (Ghosh pronuncia la parola in italiano, ndr) che nascondono alla vista il problema cruciale. Non deve stupire, allora, che nel mondo si assista a una rivolta generalizzata nei confronti degli “esperti”, della loro convinzione di poter governare ogni cosa».
Ma il rischio non è di esaltare la non-conoscenza quando invece si dovrebbe mettere la conoscenza al servizio dei bisogni?
«La contraddizione sta nel dire che il popolo è sovrano, ma poi dare il potere agli esperti. Da qui bisogna partire».
Neppure la sua India non pare indenne da queste dinamiche.
«Da tempo mi sono convinto che ci siano somiglianze fra il primo ministro Narendra Modi (espressione dei nazionalisti indù del Bharatiya Janata Party, Bjp, ndr) e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. In comune questi sistemi semi-autoritari hanno la demonizzazione delle minoranze con un ritorno a un’immaginaria unità nazionalistica. L’India però è così vasta che tutto accade in modo contraddittorio, e comunque la corrente sta cambiando».
Intanto Trump si avvicina all’India.
«L’idea degli Stati Uniti è quella di creare una sorta di arco per contenere la Cina con Giappone, Sud Corea, India, alcuni Paesi del Sudest asiatico. Ma ci sono problemi con questo scenario: troppe priorità diverse che vanno poi a confliggere con gli imperativi politici di Washington. Ad esempio: per l’India è essenziale l’energia dall’Iran, ma se gli americani mettono il veto all’accordo con Teheran la posizione di New Delhi diventa insostenibile. Per quanto riguarda la Cina, però, l’aspetto più interessante è l’iniziativa One Belt One Road (la nuova via della seta lanciata da Xi Jinping, lo sviluppo economico di un corridoio terrestre verso l’Europa che coinvolga Asia Centrale, Asia Meridionale e Medio Oriente, ndr)».
Avrà un impatto decisivo sull’India?
«Vedo soprattutto un cambiamento strutturale della politica mondiale. La dominazione occidentale sull’India fu facilitata dalle rotte marittime e dalla potenza delle flotte europee. Nel Novecento sono state Gran Bretagna e America a gestire il flusso delle risorse energetiche attraverso l’Oceano Indiano. Ora, attraverso l’One Belt One Road gli scambi d’energia fra Cina e Russia e di beni fra Cina ed Europa avverranno via terra. Verrà in questo modo a mancare quello che finora è stato il grande vantaggio della potenza anglo-americana, cioè il controllo del mare, quest’ansia perseguita gli Stati Uniti e l’anglosfera in generale. L’India è in una situazione peculiare. L’iniziativa cinese può essere per l’India una grande opportunità su più livelli ma l’India pare riluttante a procedere in questa direzione, e alla fine pagherà un prezzo per questa sua timidezza, anche se per ora non se ne rende conto».
La Birmania è ben presente nei suoi libri. Ora l’Occidente sembra deluso da Aung San Suu Kyi che invece aveva eletto eroina della democrazia.
«Il mondo aveva su di lei aspettative irrealistiche, come se la parola democrazia avesse un potere magico. È soprattutto l’amministrazione di Obama la responsabile di queste speranze: voleva attribuirsi un merito. Il mondo s’è accorto della crisi dei Rohingya, ma di crisi ce ne sono molte altre in Birmania, nelle zone dei Kachin, dei Karen».
Anche la religione comincia a giocare un ruolo, nelle divisioni della Birmania, come già avviene altrove.
«Nella società le cose non accadono mai isolate le une dalle altre. Che l’Arabia Saudita sia così potente e al contempo così religiosa è un male per il mondo. Una sconfitta per chi insegue la laicità».