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 2018  giugno 17 Domenica calendario

Le confessioni di Nanni Moretti

«Un film politico? No, il prossimo sarà – come La stanza del figlio, Habemus papam e Mia madre che non avevano bisogno dell’attualità – un’opera dove la politica non avrà spazio». Di più, al momento, Nanni Moretti non dice: lo sta scrivendo, è la fase più delicata.
Ma, ultimo ospite dopo Anna Foglietta e Luca Guadagnino di Paolo Mereghetti a «Parlare di cinema a Castiglioncello», il regista non si sottrae alla curiosità del pubblico. E dichiara apertamente la sua militanza a un partito: «Quello di Fellini. Ho iniziato tardi a andare al cinema, verso i 15 anni. Tra i miei amici c’erano due partiti, quello di Antonioni e quello di Fellini. Io mi iscrissi al secondo». La tessera, a distanza di 50 anni (compirà i 65 in agosto), non l’ha stracciata. E ieri sera come pellicola da presentare agli spettatori dell’arena in pineta ha scelto 8½, anziché una delle sue. Ama quasi tutti i suoi film. «Quando uscì La città delle donne non mi convinse, mi sembrava troppo poco scritto, lui allora non vedeva l’ora di andare in teatro e girare. Ogni tanto ci incontravamo. Un giorno andammo a pranzo insieme. La sera prima avevano dato in tv Amarcord, gli dissi quanto l’avessi ritrovato bello, gli parlai dell’importanza di una sceneggiatura forte. Vero, mi disse lui, ma l’ho scritta dopo».
Come il maestro riminese, anche Moretti ha costruito con il suo cinema un’autobiografia in pubblico, tra Michele Apicella e se stesso. «Fin dall’inizio, 45 anni fa, mi sono venute naturali tre cose: stare dietro ma anche davanti alla cinepresa, raccontare il mio ambiente, politico e generazionale, e farlo con autoironia. Ci ho preso gusto e mi sono divertito a costruire un personaggio: la passione per i dolci, una certa rissosità, le inquadrature delle scarpe, lo sport più praticato che visto. A un certo punto sono precipitato nella prima persona, con Caro diario. Una delle tre parti racconta il tumore che ebbi, fu naturale interpretare me stesso».
Tra battute diventate, suo malgrado, tormentoni e scene cult. Frutto anche di fortunate coincidenze. «Il mambo di Silvana Mangano preso da Anna di Lattuada? In realtà fu una seconda scelta. Io volevo Caterina Caselli in Perdono ma la Titanus non mi concesse i diritti». 
Sta terminando un documentario, nato da un viaggio in Cile. «L’anno scorso ero a Santiago e l’ambasciatore italiano mi raccontò del ruolo giocato dalla nostra ambasciata all’epoca del golpe di Pinochet. La residenza dell’ambasciatore italiano diede ospitalità a centinaia richiedenti asilo che in seguito ebbero il lasciapassare per venire in italia. Per una volta che abbiamo fatto bella figura, mi è sembrato doveroso raccontarlo».
Ogni riferimento alle politiche odierne diametralmente opposte in tema di accoglienza è evidente, anche se non c’è verso di strappargli commenti espliciti. «Chi potrebbe essere oggi il Caimano? Non ci pensiamo, via». La stagione dei girotondi che molti dei suoi fan rimpiangono? «Era un periodo in cui ho pensato temporaneamente, volontariamente, spassionatamente, appassionatamente di dedicarmi a fare politica fuori dai partiti. Mi interessava criticare la destra al governo ma anche l’opposizione che sembrava fiacca. Fin dall’inizio ho detto che era una parentesi». Rivendica con orgoglio qualcosa che da giovane non voleva sentirsi dire: di aver raccontato una generazione. «Se ci sono davvero riuscito sono onorato. È una fortuna. E anche un merito».
Se ne prende anche un altro: la preveggenza. «Due mesi dopo Palombella rossa crollò il muro di Berlino e venne giù tutto. Il portaborse anticipò Tangentopoli. Habemus papam? Il giorno che si dimise Ratzinger il cellulare impazzì. Al primo messaggio pensai a uno scherzo: non volevo crederci neanche io».