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 2018  giugno 17 Domenica calendario

Intervista a Paolo Hendel. “Le sere pallose in sezione, le tante verità di Monicelli e la rissa tra Ghini e Placido”

Il buongiorno di Paolo Hendel “Ieri mi sono sparato una gastroscopia e una colonscopia; per risparmiare magari hanno utilizzato lo stesso tubo… Oggi sento l’alito un po’ pesante”. Risultato delle analisi? “Forse ho tre ulcere e un’ernia iatale, a parte questo tutto a posto. Finché c’è la salute…”. C’è tutto. “E per l’esame ti sedano, non ti addormentano, e quando sedano la gente straparla”. Chissà le parolacce. “Una persona che conosco ha rivelato la propria omosessualità in quel dormiveglia”. Anche lei? “No, però appena sveglio ho chiesto conto delle mie dichiarazioni. Non si sa mai”. Gentile, ospitale, a volte goffo nel ruolo di padrone di casa (“Volete qualcosa da bere? Ho preso un po’ di tutto, magari non volete un cazzo”), in alcune sfumature Hendel è ancora oggi l’ossimoro corretto e pacato di un figlio degli anni Settanta, quando l’impegno politico e sociale andava posto davanti a qualunque scelta di vita, anche quando la leggerezza doveva e dovrebbe rappresentare l’asso in una briscola con la carriera da comico.
Ora a 66 anni ha pubblicato un libro: La giovinezza è sopravvalutata.
Direzione 70…
L’idea che tra quattro anni li compirò, mi fa un po’ riflettere: è difficile considerarsi dei giovanottini, però è una stagione della vita, una delle tante, dove è possibile concedersi il dolce far niente.

Se uno se lo può permettere…

È la conditio. C’è un film di Ettore Scola, Maccheroni, dove a un certo punto Mastroianni dice: “Com’è bello perdere tempo”. E aggiungo: è utile anche la voglia di rallentare il ritmo ossessivo, quindi concedersi un buon libro e un videogioco.
Videogioco?
Li amo. Ho comprato una serie di game con il pretesto di regalarli a mia figlia, solo che si scoccia e mi manda a letto: monopolizzo tutto.
È una battuta?
Se lo domandate a lei, il suo sguardo corrucciato non lascerà dubbi sulla risposta.
Il non far niente dove arriva?
Stare sul divano, la televisione accesa, magari cambiare canale senza neanche sapere cosa si guarda, con il solo pretesto di seguire i propri pensieri, anche se i pensieri stessi non sono poi decifrabili.
Noia, mai?
Capitava da ragazzo. Giravo per casa schiavo di una cantilena: “Non so che fare… non so che fare”. Mia nonna si incavolava. Oggi quella noia non c’è più, c’è solo il desiderio di capire qual è lo scopo.
Fino a 30 anni cosa ha combinato?
Ho cominciato tardi quasi tutto, compreso mia figlia, avuta a 54 anni, da primiparo attempato. La prima volta che sono andato a prenderla alle elementari la bidella si è rivolta alla piccola con la frase: “Che bello, c’è”.
Bidella sbadata.
No, aveva ragione. Un’altra volta ho accompagnato mia madre del geriatra. Durante l’attesa lei si alza per andare in bagno, nel frattempo esce il medico, mi vede, e senza alcun dubbio pronuncia la “sentenza”: “Si accomodi”.
Altri “ritardi”?
Mi sono laureato a 44 anni, fuori corso per secoli, pagando fior di tasse universitarie; a 30 e passa sono salito per la prima volta su un palcoscenico, e con la voglia di ridere di me stesso e di quello che non mi convinceva della vita.
Ridere…
Un bisogno fisiologico, come quando scappa la pipì. E ciò che fa paura, che non piace, per esorcizzare, sottrarre il peso dallo stomaco.
Perché solo a 30 anni?
Prima ho passato la stagione dell’impegno politico e della contestazione studentesca.
Con chi stava?
Dentro un limbo, a sinistra del Partito Comunista ma senza riconoscermi in alcuno dei gruppi nazionali ed extraparlamentari; mi muovevo su idee luxemburghiane.
Da leader?
Macché, non mi cagava nessuno. In alcune fasi sono stato vicino al Manifesto, ma neanche tanto. Ripeto: ero luxemburghiano, ci distinguevamo da quel talebano di Lenin, mi piaceva l’idea dell’avanguardia esterna, o del militante politico professionista che poi dirige la classe operaia; temi che se ci penso oggi sorrido.
Neanche sessantottino…
Arrivato in ritardo pure lì, avevo solo 16 anni, me ne sono accorto quando era già passato, ed è un peccato perché si dice sia stato un periodo di grande sesso e droga, mentre quando è toccato a me il sesso e la droga erano derubricate al solo discutere. E per dieci anni.
Infiniti, anni.
Ore e ore chiuso in sezione, quando fumavi di continuo, discutevi di continuo, e poi alle tre di notte scattava il momento del ciclostile per essere pronti a volantinare davanti alle scuole e alle fabbriche.
Bordate di allegria.
Ma quale?
Dopo questi dieci anni?
Meno speranze e più delusioni, mi sono ritrovato con quella voglia incontrollabile di ridere di ciò che avevo combinato.
“Compagni che sbagliano”, ne ha conosciuti?
Ce n’erano, in qualche modo li inquadravo come forma di esasperazione dell’avanguardia esterna. Niente di più sbagliato. Però sono stati anni di fratture, dove la gara era a cercare quello che ci divideva, non i punti di unione; nel 2018 ho assistito a un Pd altrettanto a pezzi.
E si è sentito a casa…
Un senso di nostalgia, ho pensato: ma allora tutti questi anni non sono serviti a un cazzo.
Ridere è un modo di indignarsi?
Due stati d’animo paralleli, e la risata arriva anche a liberarti di un peso; un punto di vista diverso che ribalta la visione. È fondamentale seminare dei sani dubbi.
Un grande “seminatore” è stato Monicelli.
Con lui ho girato qualche piccola cosa in qualche suo grande film, ma l’insegnamento maggiore l’ho ricevuto sul piano umano, sulla vita, su come invecchiare. Quando ti vedeva troppo preso per vicende di relativa importanza, ti ricordava: “La vita è un balocco, non te la prendere”.
Derubricava…
Insegnava a non darsi troppa importanza, a non prendersi necessariamente sul serio. Quando lo chiamavano “maestro” si scocciava e chiedeva se stavamo alle elementari; lui si spacciava per artigiano del cinema e il film era il risultato di un lavoro di gruppo. Di un gruppo di artigiani.
Era esigente sul set?
No, secco, diretto e veloce.
Fino alla fine ha parlato di “balocchi”?
Quando ha compiuto novant’anni ha mutato prospettiva, e al mio richiamo sul balocco, rispondeva: “No, la vita è un depliant”, come a sottolinearne la brevità.
Stupito di come è morto?
Sono rimasto tra l’incazzato e il disperato. Ma lui inorridiva all’idea di non poter usufruire dell’indipendenza, se gli mostravi un po’ di tenerezza legata all’età, ti mandava immediatamente affanculo.
Lei è stato tagliato da uno show di Panariello per un monologo su Vespa. 
Sono molto amico di Giorgio, e non so come è realmente andata. È stato un momento difficile, e qualche intoppo c’è stato; per carità, ci ho messo del mio, perché parlare di Vespa su Rai1, è come andare in chiesa e sparare un “moccolo” (bestemmia in dialetto toscano); però chi vede in Vespa un giornalista coraggioso ha forti problemi di lucidità, deve essere sotto l’influsso di droghe pesanti.
In carriera è stato spesso censurato?
A teatro ovviamente no, poi a me piace molto ruotare intorno alla parolaccia, è una sorta di illusione toscana di giocare con gli estremi, e ogni tanto esageriamo.
Quindi?
Ho ricevuto più che altro delle critiche da addetti ai lavori, in realtà ho sempre pensato che se ti metti nei panni di un pover’uomo che parla di ciò che avviene, e punta il dito sulla quotidianità, allora la parolaccia assurge a elemento necessario.
La forzatura sarebbe levarla.
L’aspetto assurdo è fossilizzarsi su quelle due o tre parole. Comunque, più della censura, a volte mi sono auto-limitato, specialmente in tv.
Anche con la Gialappa’s e il suo Carcarlo Pravettoni?
Lì non ero ospite, ma all’interno del programma, e a loro tre devo dire grazie.
È durato solo due anni.
Per l’impostazione del format: ogni due stagioni cambiavano, quindi non è stata una mia scelta. E Carcarlo Pravettoni è nato dalla loro sensibilità e fantasia, insieme a Walter Fontana.
Non da lei?
Dirò di più: quando mi hanno parlato del personaggio e della loro idea, ho risposto “siete pazzi”. Perché non ho mai vestito i panni di personaggi, mi riesce poco, non sono capace a recitare con dialetti diversi, neanche le inflessioni. Poi i dubbi si sono sciolti durante la stesura dei testi.
Battute a raffica.
Andavo lì con tre o quattro pagine piene di idee, dopo mezz’ora di riunione diventavano venti e non riuscivo a stargli dietro: sparavano cazzate da ogni poro, e ci divertivamo da matti.
Nel suo libro divide i toscani in due gruppi: da una parte Dante, Michelangelo, Machiavelli, Padre Balducci, la Hack, dall’altra i cattivi come Pacciani e Verdini. E Renzi?
Lo piazzerei in mezzo ai due gruppi, come traghettatore, ma non ho capito da che lato sta andando.
Roberto Benigni?
Dovrebbe riprendere la vivacità naïf di un tempo… Tanti anni fa ho assistito a un suo monologo in una piazza di Firenze, e ancora oggi posso chiudere gli occhi e sentire il mio stupore davanti a tanta straordinaria bravura.
Il Cioni Mario…
Non pensavo si potesse ridere così della quotidianità. Era ruspante. Ora è diventato una sorta di padre della Patria, con interventi sacrosanti, ma ha perso il graffio di un tempo.
Quando lo ha conosciuto?
Secoli fa insieme con Bertolucci. Anche allora, e a tavola, dilettavo i presenti con i miei check up, diarrea, disfunzione erettile, e Bernardo a un certo punto non si trattiene: “Sono stupito del tuo coraggio nel parlare così della vita privata e senza vergogna”.
Il suo primo film “A ovest di Paperino” era con i Giancattivi…
Una forzatura: allora accompagnavo Davide Riondino nei suoi concerti e tra una canzone e l’altra mi presentavo sul palco vestito da maggiordomo, gli offrivo della frutta, lui rifiutava e io me la spaccavo in testa.
Che frutta?
Una mela, poi l’ananas, infine l’anguria. Tutto giocato sul contrasto, ed era una cagata, forse il pubblico sorrideva per solidarietà umana.
Mal di testa, mai.
Eccome, e forse ne porto ancora le conseguenze.
E nel film?
La contrapposizione è saltata e con un risultato ancor più modesto; spesso ho sbagliato a passare dal teatro, alla tv, al cinema, poi di nuovo teatro…
“Amici miei, come tutto ebbe inizio” è stato uno di questi errori?
I fan storici hanno vissuto quel film come un sacrilegio, più dell’intenzione di chi lo ha scritto e girato; una storia nata dagli stessi autori dei tre Amici precedenti, poi per strada abbiamo perso i riferimenti giusti, compresa la morte di Monicelli.
Il risultato finale?
Un film realizzato con molta attenzione, ricordo ore e ore di attesa, con noi vestiti pesantissimi e solo per attendere la giusta sistemazione delle luci; nel frattempo Giorgio Panariello giocava a poker sul tablet, e poi scattava qualche discussione accesa.
Quanto accesa?
Abbastanza, in particolare la rissa sfiorata tra Michele Placido e Massimo Ghini: i due si sfidavano a colpi di Nastri d’Argento e altri riconoscimenti; un po’ di celodurismo acceso.
Lei rideva.
Più che altro ammutolito, fino a quando li ho visti armarsi di sedie e mi sono preoccupato. Poi tutto è sfumato. Alla fine li ho ringraziati per aver ingannato l’attesa.
Lo farebbe un reality?
Quello che mi preoccupa è che sono sempre nudi, in quel caso gioco svantaggiato.
Da vestito?
Va bene, perché in mutande non sono un granché.
A 66 anni, cosa desidera?
Stare in equilibrio.
(Canta Vasco: “La vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia”).