Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2018
Amos Oz, gli strumenti di un grande scrittore
«Subito» non è una parola che gli piaccia. Se vi sedete al tornio della scrittura, e cominciate a dar forma a un racconto, vi accorgerete di quanto tempo ci voglia. Un movimento dopo l’altro, con fatica, lentamente, la ruota delle parole scava nei suoni, nell’animo, negli eventi. Un personaggio nasce frase dopo frase, un rammarico dopo l’altro, una sconfitta che segue la successiva. Il martello del «subito» non è tra gli strumenti di un grande scrittore.
Amos Oz ha una bella voce profonda. Mi risponde dalla sua casa di Tel Aviv. Io sono a Berlino, in una stanza del campus universitario di Dahlem. Per superare la distanza geografica basta il telefono. Due città possono essere però distanti in molti modi. Non è facile andare da Berlino a Tel Aviv nella storia. O forse, non è facile andarci «subito». Credo che sia per questo che Oz comincia il nostro colloquio parlando di rivoluzioni. E lo fa con una professione di fede. Anzi, di non fede. «In politica, nel mio lavoro letterario, non sono un rivoluzionario», mi dice con tono pacato. E poi, con un guizzo d’ironia, aggiunge: «Anche se nel mio paese molti mi considerano un rivoluzionario pericoloso. Chi non lo è, un pericoloso agitapopolo, negli occhi di qualcuno, là fuori nell’oscurità?» È bastato un attimo e la frase ha attraversato politica, letteratura, Israele, per finire nel dissidio tra l’io e i molti, e approdare al buio dei sospetti, del si dice. Mi viene alla mente l’oscurità del deserto, che in qualche pagina memorabile di Oz avvolge, attenua, redime il teatro delle passioni. Cos’ha a che fare la letteratura con la rivoluzione? Oz mi risponde con un filosofo. Il vecchio Kant risuona familiare qui, nella luce di Berlino, anche se la sua frase mi giunge adesso da quell’altra, distante luce di Tel Aviv: «Da un legno storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto». Penso mentalmente che l’originale tedesco suona ancora più nodoso: «Aus so krummem Holze». È una stortura antica, irrimediabile, stupefacente. Un difetto di natura, quello di un legno piegato, trovato così com’è, che bisogna usare in mancanza di meglio. Oz non lo dice al telefono – la nostra non è una dissertazione ma una chiacchierata informale – ma nella sentenza di Kant si nasconde una frase ancora più antica, che viene proprio dalla storia ebraica: «Ciò che è storto non si può raddrizzare e ciò che manca non si può contare». Non l’ha affermato forse Qohelet? In tutta la sua sapienza, saggio di giorni, affranto di esperienze, l’Eccelesiaste si è fermato, anche lui, a raccogliere un legno storto. Ha soppesato l’uomo, l’ha osservato con la più profonda attenzione, senza scartarlo, senza lodarlo, senza immaginarselo diverso da com’è. Amos Oz non sceglie la strada della Bibbia, che pure avrebbe a portata di mano. Da Kant passa a Isaiah Berlin, il pensatore politico e sociale che tanto ha influenzato il secondo Novecento. Sì, il cognome suona come la città, quella in cui ora mi trovo. Berlin, con il suo fulmineo senso dell’ironia, si sarebbe sicuramente divertito per il bisticcio. Un ebraista italiano che da Berlino discorre di rivoluzioni con uno scrittore israeliano che cita un pensatore di nome Berlin… Non ci sono coincidenze nella vita.
La coincidenza è la vita. Il legno storto dell’umanità, è il titolo di una celebre raccolta di saggi di Isaiah Berlin. Con il bastone storto, Berlin ha bacchettato i promettitori di tutto e niente, i rovesciatori di futuro che, nella storia convulsa del XX secolo, hanno rovesciato la ragione in violenza e terrore. Amos Oz continua: «L’idea che si possa compiere un’operazione chirurgica e rimuovere l’egoismo, sradicare le ambizioni, cancellare le gelosie, è semplicemente infantile». Ma allora, mi chiedo e gli chiedo, perché scrivere? Se uno scrittore non può operare come un chirurgo, che possibilità ha di guarire, di risanare se stesso e gli altri? Il bisturi dello scrittore, mi dice Oz, si chiama curiosità. «La curiosità non è solo uno strumento intellettuale. È un dovere morale. Una persona curiosa è anche una persona un poco migliore». È questo ciò che lui chiama il «dono della letteratura». Non vuol saperne di un ruolo o di funzioni sociali dello scrittore. Gli basta avere il carisma antico della curiosità, della capacità di mettersi nella pelle dei personaggi, di entrare nei corpi e nelle menti degli altri, di muoversi come loro, di pensare e di agire come se fosse nei loro panni. Mentre Amos Oz parla, mi passano davanti agli occhi alcune azioni dei suoi libri, i monologhi, i paesaggi pietrosi, il contrasto tra il mondo ordinato e urbano e la sfrangiata libertà dei luoghi inabitati. «La letteratura è un invito – continua Oz. Prendi il posto altrui, mimetizzati, prova come ci si senta in paesaggi estranei». Impara com’è bello essere diversi. O com’è pauroso, soffocante, storto. Eccolo di nuovo, il legno storto. All’inizio della nostra chiacchierata, la metafora mi ha messo un po’ a disagio, per il pessimismo che credevo contenesse. Se non si può raddrizzare nulla, che senso ha affaticarsi tanto? C’è voluto un po’ di tempo. Lentamente, il pensiero di Oz s’è dipanato. Il legno storto è il messaggio, l’oggetto, la trama, la descrizione. Non c’è un altro legno possibile, così come non c’è una lingua che non batta ritmicamente sui nodi, sulle tortuosità e sui serpeggiamenti. La curiosità dello scrittore, dell’uomo, del politico, prende in mano il legno con cautela. Non lo si può sforzare, altrimenti si spezza irrimediabilmente.
È così e non altrimenti, ma proprio per questo è importante descriverlo, in tutte le sue imperfezioni. «Immagina di essere in un tempo diverso, in un altro luogo, in una discordante situazione. Non per sacrificarti, ma per incontrare l’altro a metà strada». Questo, secondo Amos Oz, è il dono della letteratura. Non è un sacrificio né una costrizione. Né una rivoluzione. Chi ha fretta lasci perdere novelle, romanzi, poesie. Si scelga dei bei bastoni diritti e non stia tanto a cavillare su dolori, sentimenti, dubbi. Ammesso che un legno così, senza nemmeno un nodo, lo si possa mai trovare. A Tel Aviv, a Berlino, nel mondo intero.
© RIPRODUZIONE RISERVATA