Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2018
Astrochimica, verso l’origine della vita
Negli ultimi anni in ambito aerospaziale è stata fatta una scoperta che mette in discussione la nostra visione della vita nel Cosmo. Esseri viventi vegetali, come i licheni, e non vegetali, come alcuni batteri o il plankton, organismi quindi relativamente complessi, hanno trovato il modo di sopravvivere in ambienti non terrestri: per esempio all’esterno della International Space Station in orbita intorno al nostro pianeta, oppure sul frontale delle lenti delle telecamere lunari o, ancora, in laboratorio, in condizioni che simulano quelle tipiche di Marte. Riescono cioè a resistere all’assenza di ossigeno e, più in generale, di atmosfera, all’esposizione massiccia ai raggi ultravioletti e alle radiazioni ionizzanti; fattori che finora ritenevamo fossero i principali “nemici” della vita così come la conosciamo noi, e come la pensiamo su sistemi planetari extra-solari.
Come è possibile tutto questo? Non ci è forse stato sempre detto che la sopravvivenza degli organismi viventi è possibile esclusivamente in presenza di un’atmosfera protettiva? Solo lo studio della chimica dell’universo, l’astrochimica, potrà dare una risposta a queste domande. L’astrochimica è il viaggio affascinante verso l’origine della vita che la scienza ha deciso di intraprendere da qualche anno. Adesso questo viaggio della scienza farà scalo per la prima volta anche in Italia, a Pisa, dove sta nascendo il centro STAR, una partnership tra Scuola Normale Superiore, Università Federico II di Napoli e Università di Bologna. STAR, acronimo di Systems and Theories for Astrochemical Research, cercherà di comprendere le basi molecolari dell’evoluzione dell’universo: la formazione di molecole nello spazio, l’aggregarsi in sistemi complessi, ma anche la loro trasformazione e distruzione, l’interazione con la radiazione elettromagnetica. Lo scorso anno è stata osservata nello spazio intersiderale la prima molecola “chirale” (cioè non sovrapponibile alla propria immagine speculare, come sono le nostre mani), il metilossirano. Sappiamo che condizione necessaria all’affermarsi della vita è proprio la rottura della simmetria nelle biomolecole, cioè la chiralità. In altre parole, l’eccessiva simmetria non genera vita. Ancora prima su alcune meteoriti erano state rilevate tracce di glicina, il più semplice degli amminoacidi, cioè i mattoni fondamentali di molte biomolecole complesse, in particolare delle proteine. La glicina, però, presenta un problema affascinante: è l’unico amminoacido non chirale e va dunque capito come possa essere avvenuta la rottura della simmetria per la creazione della vita. Queste scoperte sono passi decisivi in direzione della scoperta dell’origine della vita nell’universo, come si sia sviluppata e trasmessa, una delle domande più affascinanti che l’uomo si sia mai posto. Un filosofo della scienza, Ashutosh Jogalekar, ha scritto che «i fisici hanno il loro Big Bang, i biologi hanno l’evoluzione per selezione naturale... L’origine della vita è la grande idea dei chimici, un piatto di prelibatezze interdisciplinari che affronta sia importanti enigmi chimici sia profonde filosofie».
Ma perché è importante dedicarsi a questo ambito? Cosa ci spinge a investire in questo tipo di studi che non hanno un ritorno immediato in termini economici, quando ormai sembra che l’accademia italiana (e internazionale) debba privilegiare solo ciò che può immediatamente tradursi in mercato e tecnologia? Non è solo l’impulso a varcare le colonne d’Ercole della conoscenza che ha spinto la Normale a fondare il centro STAR (che, tra parentesi, metterà a bando già da ora alcune borse di dottorato). C’è anche un altro aspetto, che riguarda una fetta consistente dell’accademia e della scuola Italiana: se continuare a dare o meno importanza alle discipline “pure”, come la matematica, la fisica, la chimica, e di ambito umanistico, oppure privilegiare esclusivamente le discipline “applicate”, accodandoci definitivamente alla moda anglosassone, così come alle università asiatiche. Dobbiamo disconoscere la nostra stessa identità, rinunciando a discipline che costruiscono capacità interpretative dei dati e, soprattutto, capacità di spingere il limite un po’ più in là, immaginando scenari non ancora visibili, disegnando un orizzonte verso il quale muoverci e identificando problemi sui quali cercare dati, oppure dobbiamo continuare ancora a puntare su di essa anche per il nostro futuro?
La Scuola Normale, che contempla quasi esclusivamente ambiti disciplinari “teorici”, quale ruolo può avere nel contesto universitario italiano, in cui gli investimenti sono sempre più determinati da programmi governativi incentrati su progetti industriali?
A mio parere, indagini apparentemente sganciate da un ritorno economico immediato sono invece quelle che in una scala temporale più lunga sono più redditizie.
Pensiamo a internet, che nasce perché abbiamo saputo incanalare reti di dati in linguaggi “trascrivibili”. Alla base di internet c’è la matematica, dunque una disciplina “pura”, e teorie nate dal Settecento in poi. Pensiamo alla telefonia, possibile grazie alle scoperte sull’elettromagnetismo, dunque sostanzialmente della fisica dell’Otto e Novecento.
La ricerca sull’astrochimica, che è un mix di chimica e fisica degli astri, a che cosa ci condurrà? Al momento non lo sappiamo, ma tra 50 anni potrebbe dare il via a rivoluzioni che adesso non siamo in grado neanche di immaginare. È questo il punto: se dedicarsi esclusivamente al mondo che conosciamo, all’utile, e condannarsi alla miopia, oppure scommettere su quello che sembra visionario, forse inutile, ma che potrebbe far scaturire cambiamenti epocali. O darci via di fuga.
STAR inizia le sue attività con più modeste ambizioni. Confronteremo dati che arrivano dai moderni strumenti di osservazione delle cosiddette iCOM, l’acronimo inglese che identifica le molecole organiche complesse interstellari. Grazie ai grandi progressi nella modellizzazione della fase gas e della chimica di superficie, attraverso i lavori di laboratorio e i calcoli di chimica quantistica, oggi infatti abbiamo nuovi strumenti per studiare le vie di formazione degli iCOM nello spazio, che rappresentano gli elementi costitutivi delle molecole pre-biotiche. Ma da questo confronto di dati e dalle proiezioni teoriche che siamo in grado di fare con la nostra strumentazione ci attendiamo qualche notizia in più.
Tornando agli scenari possibili dovuti alla scoperta della resistenza di certi organismi alle condizioni fisiche presenti nello spazio, le implicazioni potrebbero essere affascinanti: i progenitori di questi organismi potrebbero essersi sviluppati direttamente sulla Terra, ma in un ambiente del tutto diverso da quello in cui ritenevamo avesse avuto origine la vita; oppure possiamo persino arrivare a immaginare che questi nostri lontanissimi antenati siano arrivati da fuori, da qualche altro luogo dell’universo, trasportati da meteoriti o detriti atterrati sulla Terra, e qui si siano poi adattati a vivere.
Sia in un caso che nell’altro, è evidente che la complessità chimica della nostra galassia è probabilmente molto maggiore di quella che si riteneva solo fino a qualche anno fa e che la vita, così come la conosciamo, non solo è possibile altrove, ma sarebbe forse teoricamente “ricostruibile” altrove. A questo tipo di sfide luoghi come la Scuola Normale guardano e continueranno a guardare: per provare a disegnare gli orizzonti verso cui camminare e identificare, con anticipo, i territori della ricerca applicata.