la Repubblica, 16 giugno 2018
Ma gli hotspot in Libia restano un miraggio
«Non chiamateli hotspot, per carità. Niente di più sbagliato – qui lavoriamo con una filosofia della cura per la ripresa di persone violate che hanno vissuto sospese e le prepariamo ad integrarsi nei paesi europei che li accoglieranno». Il “qui” di cui parla Alessandra Morelli, rappresentante dell’Unhcr in Niger, è un agglomerato di casette in cui vengono ospitati, in assoluta libertà, alcune centinaia di richiedenti asilo in transito verso l’Europa. Al momento è quello che più si avvicina all’idea di centri, proposti dai premier di Italia e Francia, da realizzare in Africa in cui identificare i migranti in fuga dai loro paesi d’origine, verificare chi ha diritto a chiedere la protezione internazionale e favorirne l’arrivo dall’altra parte del Mediterraneo per le vie legali.
Ossia in aereo. Un “miracolo” di cui fino ad ora hanno avuto la fortuna di beneficiare circa 1.500 persone, quelle in condizioni di maggiore vulnerabilità, individuate dall’Agenzia per i rifugiati dell’Onu nelle carceri libiche, liberate, evacuate in Niger e da qui – dopo la verifica delle loro posizioni – redistribuite nei diversi paesi europei che hanno messo a disposizione dei posti, tremila per ora, una percentuale minima rispetto ai 40 mila per i quali l’Unhcr ha chiesto la disponibilità. «La Francia è già molto impegnata in questo progetto – spiega Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, lavoriamo con persone che evacuiamo dalla Libia ma anche che intercettiamo sulla rotta Etiopia-Sudan-Ciad-Mali-Libia. La Francia manda in Niger, in Ciad i suoi funzionari a fare una prima ricognizione delle persone che hanno i requisiti per chiedere la protezione internazionale. Ma in Libia questo non si può fare. Non ci sono proprio le condizioni per mandare i componenti delle commissioni che devono vagliare le richieste d’asilo. Si può fare in Niger, in Tunisia, in Marocco ma non in Libia. Occorre una riforma del regolamento, un meccanismo di distribuzione che sleghi il momento dello sbarco a quello della richiesta d’asilo. Nessuno può essere clandestino in mare».
Di hotspot, dunque in Africa, non ce ne sono – gli unici quattro sono in Italia, Lampedusa (ora chiuso) Pozzallo, Porto Empedocle e Taranto – né al momento ci sono le condizioni per aprire dei centri in Libia o lungo la rotta del Sahel come aveva già proposto l’anno scorso Macron.
Anche nei porti di sbarco, dove le motovedette libiche riportano indietro i migranti soccorsi in mare, i rappresentanti di Unhcr e Oim non possono fare altro che sincerarsi delle condizioni delle persone. «Ma poi li riportano tutti nei centri di detenzione dove le condizioni sono drammatiche», dice Flavio Di Giacomo dell’Oim che da tre anni è impegnata nel progetto della migrazione per vie legali, e cioè i rimpatri volontari assistiti dei cosiddetti migranti economici. Trentamila in tre anni, 8.500 solo nell’ultimo anno le persone che sono state intercettate lungo la rotta del deserto, assistite e ospitate in sei centri in Niger, identificate e informate della possibilità di tornare a casa con un sostegno, frutto di un progetto europeo da 30 milioni di euro.
«Diamo loro un documento, un biglietto di aereo o di bus, 1.500 euro ma non cash, bensì come parte di un progetto economico da attuare una volta tornati in patria, l’accesso alle cure mediche, alla scuola per i più piccoli», spiega Giuseppe Del Prete, rappresentante dell’Oim in Niger.«La strada dei corridoi umanitari è già stata aperta da Minniti – osserva il prefetto Mario Morcone – ma al momento l’idea di realizzare dei grandi hotspot in Africa mi sembra molto velleitaria. In Libia al momento è impossibile. Ci vuole la collaborazione di governi stabili e, soprattutto, molti soldi. Parliamo di miliardi».