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 2018  giugno 16 Sabato calendario

Friggendo le uova al tegamino ho sentito il respiro di Dio

Nella tradizione letteraria americana è radicato il genere della meditazione solitaria, esperienza in cui il protagonista si allontana dalla sua comunità per ritrovare, nell’eremitaggio o nel viaggio, il senso della vita e della propria identità. Il lettore ricorda l’apologo di Henry David Thoreau, Walden, o la vita nei boschi, diario di riflessione civile e spirituale sull’America che lasciava la frontiera per l’industria, pubblicato nel 1854. O il pellegrinaggio lungo gli oceani del baleniere Ishmael, immaginato da Melville in Moby Dick, tre anni prima di Thoreau. O, un secolo dopo, l’autostop di Sal Paradiso nel romanzo Sulla strada di Kerouac, 1957, e la disgraziata odissea del ragazzo Chris McCandless, che si era rifugiato da solo nei boschi dell’Alaska, per scoprire con dolore quanto la natura selvaggia sia matrigna e morire di inedia, senza soccorsi a 24 anni (la sua storia in Nelle terre estreme di Jon Krakauer, Corbaccio, 2008, e nel malinconico film Nelle terre selvagge di Sean Penn).

Annie Dillard, di cui ora Bompiani pubblica i saggi Ogni giorno è un dio (l’autrice alterna in originale Dio-dio in maiuscolo e minuscolo e la traduzione di Andrea Asioli segue con fedeltà) è una delle rare donne a seguire la tradizione di Thoreau e Melville. Il suo libro migliore, che le fruttò un premio Pulitzer nel 1975, a soli 29 anni, è Pilgrim at Tinker Creek, sorta di diario intimo, nostalgia per un’America e un Dio perduti, riscattata da una fede primigenia in Deus sive Natura, un sincretismo ottimista dove la vita quotidiana si libera da alienazione e frustrazione, riconoscendo che ciascuno di noi non è mai solo, ma sempre parte di una comunità, animata e no.
Attraverso la valle di Yakima, nello stato di Washington, o spingendo letture e sguardo al Polo Nord, la Dillard ci offre un curioso intreccio fra teologia, reportage di viaggio, critica letteraria, diario psicologico, indagando con occhio che ingloba insieme le stelle, una goccia di rugiada su un filo d’erba, la teologia del gesuita Teilhard de Chardin che con la sua «noosfera» seppe immaginare il web un secolo or sono.
«Perché nei deserti c’è la sabbia? Da dove viene? Perché sulle spiagge c’è la sabbia?»; «Ogni giorno è un dio, tutti i giorni sono un dio, e la sacralità procede nel tempo. Venero ogni dio, rendo lode ogni giorno...»; «Quel che è nuovo in eterno è il nostro dolore. Quel che è nuovo in eterno è il nostro stupore. Quel che è nuovo in eterno è la nostra domanda: cosa cavolo sta succedendo quaggiù? C’è qualcuno che dirige questo spettacolo?... Un giornalista britannico... osservò «O la vita è sempre e in ogni circostanza sacra, oppure è intrinsecamente priva di valore; non è concepibile che in certi casi possa essere l’una e in certi altri l’altra cosa. A “sacra” sostituisci “preziosa”, o qualsiasi cosa tu voglia, e cerca le pecche nel suo ragionamento. Intendeva, ovviamente, la vita umana». 
Questa è la strada letteraria che i passi a Yakima Valley inducono in Dillard, come il rosario di una suora laica. La seguiamo in chiesa, oggi cattolica, ieri protestante episcopale, a interrogarsi sul segno della pace da scambiare durante la Messa, gesto che rompe il nostro post moderno isolarci dietro lo schermo digitale del cellulare, al punto che una schiera di parrocchiani chiede al vescovo di licenziare il sacerdote caloroso che, ingenuo, impone loro di stringere davvero la mano al vicino di panca. Dillard si trova accanto, durante il rito, due adolescenti con baffetti, lugs
(tradotto come «teppistelli», ma in realtà vale meglio «sempliciotti...pirla») e «Quando è giunto il momento di scambiarsi la pace ho stretto la mano a uno dei due teppistelli e ho detto: “La pace sia con te”.
Ma il ragazzo replica secco,”Yeah”, in italiano “Va beh”, “Figurati...».
Leggere Ogni giorno è un dio è come trovarsi accanto su una panchina, nella sala d’attesa di un medico, in un viaggio in treno, una signora saggia, spiritosa e un po’ matta, di 73 anni, che vi parla insieme di come strappava i peli sulle gambe al padre, della pazienza del marito, docente e poeta, nel vedersi trascinato in marce lungo boschi e stagni, della sua furia a sedici anni, quando non sapeva come organizzare la propria vitalità perché «i Marines non accettavano ragazzine di sedici anni», e la Dillard cita giusto il Marine Corps, non la «Marina militare» della, qui distratta, traduzione italiana, cioè il corpo dei combattenti d’assalto, matti e spericolati sempre! Il lettore può essere sbalestrato dalla curiosa vicina, che racconta di Merton, il monaco inglese naturalizzato americano preoccupato che la meditazione diventi noia vuota, o dello scultore Giacometti «Più lavoro, più vedo le cose diversamente...» o Michelangelo morente che esorta il discepolo Antonio a disegnare sempre, senza mai perder tempo.
A volte l’autrice sembra disperdersi tra cammini e citazioni, a volte ingenua, altre artefatta, ma quando chiudete il libro vi sembrerà di dover chiedere: e dopo? E ancora? Perché l’arte, o se preferite la devozione religiosa, di Annie Dillard è osservare il reale, da un insetto al cosmo, attenta sempre «ai dettagli», dai quali ricavare una morale estrema. Friggere delle uova al tegamino innesca una meditazione sul sale, minerale con cui ebrei e armeni consacravano i neonati e che a lungo fu messo in bocca ai bambini nel battesimo cristiano: «per tutto il giorno mi sento creata». Dillard vuole che nessuno di noi perda un istante di vita, vuol svegliarci dalla noia delle fotine Facebook che sfogliamo passivi col pollice sul telefonino, ci spinge frenetica, come il sergente dei Marines che sognava di essere, a riconoscere tutto il creato, e noi dentro il cosmo. La sua domanda maniacale fonda la filosofia e la teologia, «Come ci si sente ad essere vivi?», ma la risposta non viene da altri tomi accademici, viene dalle albe in tenda, dai dialoghi con un prete, dai ricordi della vita in famiglia, l’arresto per una corsa in auto illegale, con il poliziotto a prenderle le impronte digitali al tribunale dei minorenni, l’espulsione da scuola per una sigaretta di troppo, i genitori sconsolati «Santo cielo, cosa dobbiamo fare con te?».
La corsa e la smania non sono esaurite in Dillard, che pure teme la vecchiaia, arcigna distruttrice di talento letterario secondo lei. Ora che le sue impronte digitali in inchiostro da criminale in erba, se mai ritrovate negli archivi giudiziari, verrebbero esposte con orgoglio nelle fiere d’arte, Annie Dillard non si ferma o spegne. Cerca Dio (maiuscolo stavolta!) in ogni ruscello, granello di sale, fiore di campo, pagina di libro, memoria lontana. Sembra dirci che la prova della sua esistenza è in noi, nel nostro peregrinare e nessuna fretta, nessuna paura, deve farci dubitare. Perché giusto sulle «crepe», sulle fratture nella natura e nella cultura, più saldo deve esercitarsi il nostro passo umano.