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 2018  giugno 16 Sabato calendario

Intervista a Vinicio Capossela: «Un’estate in groppa all’Orcaestra, il mostro che mangia la mia musica»

Seduto al tavolo della Cupa, tana, base segreta, sala prove, bevendo un delizioso tè verde da lui stesso preparato, di Vinicio Capossela racconta la sua estate, che trascorrerà in compagnia di un’orchestra sinfonica. 

Capossela con l’orchestra: che cos’è, un esperimento?
«Una deviazione. Ma non vado fuori strada, mi porto dietro tutta la strada. È l’esperimento più conservatore che c’è: un concerto antologico».
Come si sta al pianoforte circondati da un’orchestra?
«È come stare su una bestia sconosciuta. Io la chiamo Orcaestra, un pachiderma marino che digerisce la mia musica e la risputa fuori. Ho pensato che potesse essere l’organismo giusto per praticare musica libera, che va a spasso liberamente per il mio repertorio».
Che effetto le fa ascoltarlo risputato fuori dall’Orcaestra?
«Mi imbarazza di tanti concerti la celebrazione della personalità. Ormai la mitologia si applica solo ai cantanti e ai calciatori, e spesso è così ingombrante che impedisce di sentire qualcosa che ci riguarda davvero. La lingua dell’orchestra invece dà soddisfazione al lato epico delle canzoni».
Quale classica ama?
«Tutta, da dilettante, nel senso che mi diletto ad ascoltarla. La classica mi fa entrare in uno stato tra la veglia e il sonno che non è noia, è una forma di ipnosi. Il teatro delle ombre cinesi in cui si fuma l’oppio in C’era una volta in America».
Come ha scelto i brani per i concerti con l’orchestra?
«Mi piace pensare agli album come opere a sé, un mondo ogni volta diverso in cui entrare. Quando ero più giovane scrivevo un pezzo alla volta, adesso o quindici tutti assieme o niente. Nel progetto orchestrale l’unitarietà la dà l’organismo, l’Orcaestra. Peschiamo da tutti i miei album». 
Non c’è un album nuovo?
«Ce le ho, le quindici canzoni. E finiti i concerti, torno a occuparmi della covata».
Sta abbandonando la figura del cantautore al pianoforte delle origini?
«Rimango saldamente ancorato al mio strumento: faccio canzoni diverse perché sono cambiati i soggetti, ma gli strumenti di bordo non tanto. Mi avventuro in zone in cui le canzoni diventano piccole storie in musica. Vado verso strutture letterarie, il Moby Dick in cinque minuti, la storia di Mosca in pochi versi... Da qualche anno sono attratto dalla forma della ballata precedente la canzone, il canto epico di Omero, dei trovatori. E questo mi fa avvicinare a maestri italiani come De André, o Branduardi».
Allora è vero, come si disse ai tempi del Nobel a Dylan, che la canzone è letteratura, nasce dalla parola.
«Nasce dalla parola in verso, la parola da sola non basta. Recentemente ho avuto un problema a un piede: non camminavo e non scrivevo, mi sono reso conto che il podos deve avere ritmo, che percorrere una strada è essenziale. E se si viaggia, è meglio farlo senza scopo, come fa il flâneur, il periplanomenos, parola bellissima che in greco indica colui che gira senza un interesse. Ulisse viaggia ma non è un mercante. Il periplanomenos, l’alítis, si mette a disposizione della vita, degli eventi, del podos e della metrica».
È difficile fare il musicista oggi con quello spirito.
«Vero. Però mi adopero per la conquista di quella condizione, l’unica possibilità di sacro che ci è rimasta. Il sacro - tutto che è sottratto alla sfera dell’utile - è sparito dalle nostre vite. E pure la musica oggi è soggetta al mondo dell’utile, infatti i veri grandi artisti che ho incontrato nella mia vita non sono quelli che lo fanno di mestiere. Sono come Zorba il greco, che si mette a disposizione del suo padrone per tutto ma non per danzare o suonare. “Se ho il demone, suono, ma non posso suonare o danzare perché me lo chiedi tu”».
Il ridimensionamento dell’industria discografica rende più liberi i musicisti?
«In un certo senso sì. Con meno peso da portare si sta meglio. Nulla è più immateriale della musica: infatti le musiche che più amo, come il rebetiko, sono state prodotte dalle grandi migrazioni, dagli esodi. Chi non ha niente, si porta dietro solo la musica, o il ricordo di una musica». 
Ad agosto, finiti i concerti, si dedicherà allo Sponz Fest, che organizza dal 2013.
«Il tema quest’anno è Salvataggi dalla mansuetudine. “Salvatico è colui che si salva”, diceva Leonardo: ci occupiamo del salvarsi e tutto quello che non è addomesticato. Lo Sponz Fest non è un festival, è un modo per ritrovarsi, fare comunità e non può prescindere dal luogo, l’Alta Irpinia. I palchi non ci sono nemmeno, i veri protagonisti sono i luoghi, dove è necessario camminare per arrivarci, ci si deve mettere in gioco».
La sua famiglia viene da lì.
«È il luogo della radice nascosta. E riassume bene l’Italia dei paesi svuotati. L’Italia per me non si divide in Nord e Sud, ma in interno, la terra dell’osso, e in polpa, cioè le città, la costa. Stiamo perdendo l’interno del nostro Paese. Spopolato, viene sfruttato e violentato. Un festival non cambiare la vocazione secolare, ma il primo passo è rendersi conto di quello che si ha».
Inviterà anche Angelo Branduardi, che citava prima.
«Sì, e Teho Teardo con il fotografo Charles Fréger, che è andato a cercare “uomini selvatici” in tutta Europa. Al 90% verrà l’antropologo Marco Aime, a parlare di masche».
Ah, le masche, spaventose compagne dell’infanzia di tanti piemontesi.
«Mi piace lo spavento, è didattico. La paura è industriale, è paralizzante, immobilizza: la paura di perdere il lavoro, la salute, la paura degli immigrati, dell’Isis. Lo spavento è casalingo. Allo spavento sono affezionato, le paure industriali, di un’industria oggi fiorente, mi inquietano». —
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