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 2018  giugno 16 Sabato calendario

Paolo Conte: «Azzurro è stato il mio Sessantotto. Cinquant’anni passati in un lampo»

Sotto il cielo cobalto di Roma che si fa rosa sui resti delle Terme di Caracalla, Paolo Conte regala un caleidoscopio di suggestioni. C’è freddo, pioggia, crolla a terra una fila di poltronissime. Lui siede al pianoforte e la musica che ne viene porta caldo al cuore. È l’apoteosi del jazz, boogie dixie, blues, milonga, rimandi alle sonorità ebraiche, tutto è swing negli arrangiamenti sontuosi. L’epifania della musica si raggiunge quando ogni canzone è una rivelazione, tracima in sinfonia e con Diavolo rosso ci si augura non debba mai finire. Orchestra straordinaria con ospiti d’eccezione; i fiati senza eguali, le chitarre, i mandolini, il bandoneon per conservare quel tanto d’antico, il violino che incanta di Piergiorgio Rosso.
Stanno lì immobili Arbore, Gentiloni, Fassino, Baricco, pubblico da cocktail, ma si è bissato anche ieri e poi via a Montreux, Gent, Milano, Parma e Bologna. Conte incassa standing ovation e sorride. Solo su Azzurro si confonde una prima volta e poi ancora ma non fa niente, sembra un vezzo pensato: «Per chi è appassionato di jazz un errore è la possibilità di aprire un’altra strada, avere nuova luce. Quello che è disastro in orchestra è benvenuto nel jazz». 

Segno del Capricorno
E dire che si festeggiano proprio i cinquant’anni di questa canzone epica. «Capii che sarebbe diventata quella che è quando Adriano Celentano decise di cantarla. L’accerchiamento fu massiccio, uno a fargli la posta sotto casa e poi lui decise di ascoltarla, cantata da me e registrata sul Geloso mentre si faceva la barba in bagno. Che non gli era dispiaciuta fu chiaro subito. Una canzone che mi è rimasta nel cuore. Cinquant’anni passati in un lampo». E sì che Conte con il tempo che passa non va tanto d’accordo: «Che vuole, sono del segno del Capricorno, c’è Saturno, un rapporto teso con gli anni. Mi dico che ci sono tante stagioni nella vita, che la gioventù non è la migliore, che anche da vecchi si può vivere bene. Mi dico. Ma la vecchiaia non mi piace».
Ottantuno primavere non le dimostra, oramai è perfino caduto in prescrizione quel tabù sul vero autore delle parole di Azzurro che porta la firma di Pallavicini: «Che dire, alla Siae ero iscritto solo come musicista. Per questo non posso dire chi l’ha scritta. Però mi sto convincendo di essere stato un buon paroliere. La musica fa più colpo, nasce dal vuoto ed è così forte che da sola scrive la pagina».
Può scrivere anche la storia o ignorarla come è capitato per Azzurro, partorita in pieno Sessantotto, la rivoluzione operaia e studentesca. E lei che canta di pomeriggi colorati e di treni dei desideri. «Io il ’68 non l’ho vissuto, già lavoravo con mio padre. Anche nelle mie canzoni non ho mai voluto mettere messaggi, ho raccontato l’uomo che conoscevo io. Ho vissuto tanto e ho incontrato personaggi. Sono metastorie, parlo del tipico uomo del dopoguerra. L’ho visto risollevarsi dal disastro, rifarsi una facciata e l’ho anche visto fallire. Ho provato pietà per lui».
Scrive solo Paolo Conte perchè se la vede sempre da solo e comunica solo quando è sicuro di quello che ha composto: «Scrivo di notte, oscurità, solitudine, silenzio. E nessuno ascolta, non amici, solo i miei musicisti. Il giudizio altrui dato in corso d’opera mi turberebbe, le reazioni mi manderebbero in crisi. Il giudice unico sono io, se c’è una sequenza armonica che cammina allora va bene».

Un trifoglio tra i quadrifogli
E quando Azzurro fu proposta per sostituire l’Inno di Mameli lui rise: «Mi avessero interpellato avrei detto di no». E non si tratta neppure della sua canzone prediletta: «Preferisco Impermeabili per la musica e Genova per noi per le parole». Nelle notti insonni di scrittura e solitudine le pensa tutte, persino una frase da dire in occasione di un Oscar. Meglio, di un Nobel. «Non si sa mai che dire in quei casi. Io ci ho pensato: “Mi sento come un trifoglio in un campo di quadrifogli”. La butto sulla falsa modestia». Che di solito funziona. Di che ha nostalgia Paolo Conte? «Del diritto. Sono un avvocato in pensione e vengo da una famiglia di notai. D notte provo nostalgie tecniche. Immagino contenziosi da risolvere mentre metto su dischi jazz Anni 20 o mi guardo la classica in tv. E mi addormento».
Non si sente contemporaneo ma lo è. Calcutta ha ripreso il suo riff di Sparring Partner al pianoforte portandolo alla chitarra. «Pensare che a Parigi quando mi chiedevano di definire il mio genere rispondevo: “Confusione mentale fine secolo”». Tanto per uno che ama Aznavour e Josephine Baker: «Ci sono cose nel mondo nuovo che non decifro. Spero nella tecnologia applicata a fin di bene. Alla medicina». E il Festival di Sanremo fatto da Baglioni? «Non l’ho seguito e non lo seguirò. E anche se avessi una canzone da Festival non la porterei al Festival». 
In autunno uscirà il disco live del concerto a Caracalla, tutto esaurito. Uscendo c’è un ragazzo che dice alla fidanzata: «Questo è l’unico Conte che si vuole ascoltare». E lei di rimando: «Perchè il calciatore suona?» Lui ancora: «Ma no parlavo del Presidente del Consiglio», lei, tombale: «Ma non si chiama Salvini?». Fine dello show.