La Stampa, 16 giugno 2018
La rivolta delle donne sudcoreane contro le webcam del sesso
La settimana scorsa, alla fermata della metro Hyehwa di Seul, si è vista la manifestazione di donne più numerosa della storia sudcoreana. Un record per le almeno 22 mila manifestanti che gridavano indignate la loro rabbia contro un certo comportamento maschile. Cartelli recitavano frasi come: «Le donne arrabbiate cambieranno il mondo!». «Donne guerriere!». «Pensate che le donne debbano essere viste e non sentite? Allora, ragazze, gridiamo più forte!».
E giù urla, scandite all’unisono, cartelli alzati a ritmo, comizi, slogan. Su un palco, una fila di donne su seggiole di plastica, spalle al pubblico, si facevano rasare a zero i capelli per protesta.
Cosa sta facendo infuriare le donne della Corea del Sud? È il #metoo? Sono gli stupri in aumento? No: a far scendere in piazza migliaia di donne sono accendini tascabili, strane bottiglie, piccoli portachiavi di auto, normalissime chiavette dei computer e finte penne, tutti oggetti che celano insidiose webcam che troppi uomini sudcoreani nascondono in bagni pubblici, docce, camerini, hotel o infiltrano nelle stanze da letto di sorelle, cugine, mogli, zie. Servono a filmarle mentre fanno pipì, si cambiano i vestiti, si lavano o fanno l’amore, ignare che il fidanzato, il marito o uno sconosciuto stia filmando immagini da caricare su un sito porno.
I cartelli della rabbia
«Io non sono “porno coreano”!», «Il mio corpo non è il tuo porno!», questi i cartelli che spiegavano la battaglia per trattare più seriamente i seimila casi conclamati, negli ultimi cinque anni, di «immagini sexy rubate». «Puoi trasformarti in vittima senza rendertene conto», racconta Chang, che lavora a un centro di assistenza ai casi di molka, «telecamere segrete» in coreano. «Ho visto così tante donne che si sono licenziate, hanno fatto la plastica chirurgica, o cambiato nome e addirittura si sono suicidate per la vergogna di essere diventate oggetti sessuali online». L’aggravante che ha davvero scatenato la protesta e la rabbia delle donne coreane ha a che vedere con la mentalità maschilista della polizia. È per questo che un fantoccio a forma di poliziotto veniva preso a calci e a pugni dalle donne alla manifestazione anti-malko.
All’università di Hongik
La rabbia anti-polizia è stata scatenata dal «Caso dell’Università di Hongik», ateneo dove una donna è stata arrestata per aver filmato e messo online immagini di un modello che posava nudo in un’aula di disegno e pittura. Identificata e arrestata, è stata svergognata pubblicamente di fronte alla stampa, pur restando nell’anonimato grazie a una mascherina. «Perché non arrestano e svergognano così anche gli uomini?», chiedono donne come Ahn che, mentre dormiva in un motel, si è trovata tra le gambe uno sconosciuto armato di smartphone con il flash. «Perché agli uomini i poliziotti non chiedono, come hanno chiesto a me: avevi chiuso la porta a chiave? Eri ubriaca?».
Solo un caso
A poco servono casi esemplari di personaggi famosi come il romantico cantautore MoonMoon, scaricato dall’agenzia di management quando s’è scoperto che nel 2016 fu condannato a due anni con la condizionale perché sorpreso a fotografare sconosciute nei bagni pubblici. Non basta nemmeno sguinzagliare le anziane signore delle squadre anti-webcam che girano per i bagni pubblici armate di mascherine, cappelli e detector pensati per scovare webcam nascoste. Palliativi per rassicurare le tante donne arrabbiate.
I siti da chiudere
Come non basta, secondo le leader della Korean Woman Association, chiudere i siti dove si vedono video di donne sorprese a fare l’amore, e dove si chiede di dare il voto ai genitali di sconosciute. Bisogna fare di più. L’articolo 14 del codice penale coreano prevede punizioni anche severe per chi mostra e distribuisce immagini «di parti del corpo di un’altra persona che possono indurre desiderio sessuale e umiliazioni». Ma è troppo generico perché non punisce i maniaci molesti che inseguono le donne mentre fanno la spesa al supermercato riprendendole da dietro e dal basso con lo smartphone.
Bisogna, chiedono le donne in rivolta, tramite il quasi mezzo milione di firme di una petizione, regolare la vendita di spy cam stabilendo un registro dei proprietari, o, altrimenti, proibire del tutto la vendita di spy cam. Ma, soprattutto, bisogna tenere corsi di sensibilizzazione per poliziotti e per i bambini fin dalle elementari. Solo con l’educazione si può sperare di far capire ai maschi il livello di umiliazione che i maniaci infliggono alle donne con i loro lubrichi occhietti vitrei mentre le spiano di nascosto.