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 2018  giugno 16 Sabato calendario

Hollywood Party, cinquant’anni fa

La festa. Quella che gli volevano fare, quella che manderà a monte. È il party più celebre della storia del cinema, è Hollywood Party, anno di grazia 1968, sinergia d’eccellenza davanti e dietro la macchina da presa, Peter Sellers e Blake Edwards. Cinquant’anni e non sentirli, cinquant’anni e farli ridere tutti: purissima tradizione, eterodossa direzione, una commedia americana che prende e dà in egual misura, e cambia – per sempre – il dress code al genere.
C’è il muto, quello di Charlie Chaplin, Stanlio & Ollio e ancor più Buster Keaton; c’è la lezione slapstick di qualche anno addietro, da Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo di Stanley Kramer (1963) al Mattatore di Hollywood di Jerry Lewis (1963); c’è l’exemplum di Jacques Tati, da Mon oncle a Playtime, passando per Le vacanze di Monsieur Hulot; c’è lo spettro festoso de La notte di Michelangelo Antonioni; c’è ovviamente la fresca esperienza de La Pantera Rosa (1963) e Uno sparo nel buio (1964), che Sellers e Edwards elevano a potenza comica.
Ci sono, in breve, i crismi del capolavoro, seminale, generoso, che non si può riprodurre, ma ispirarsi sì, eccome: calchi, simulacri, “vorrei ma non posso” si sprecano, a farne tesoro è Paolo Villaggio con Fantozzi, un tot Rowan Atkinson con Mr. Bean, Enrico Montesano con Aragosta a colazione, per tacere della teoria di “Vacanze a” e cinepanettoni vari e avariati.
Tutti ai piedi dell’attore indiano Hrundi V. Bakshi (Sellers), che prima deflagra un set e quindi il party del produttore a cui viene erroneamente e sciaguratamente invitato: Bakshi è innesco, comburente e combustibile, è il triangolo del fuoco che brucia buonsenso, senso comune e, persino, nonsense. La sua dissimulata sottomissione è, al contrario, sovversione, la maldestria sabotaggio, la casualità strategia: Bakshi travolge, distrugge, annichilisce, per primo generi e registri, virando la commedia al musical e poi al cartone animato.
Può tutto, e da iconoclasta quale è non s’accontenta del metacinema, ma sperimenta ironico e (inde)fesso l’ipertestualità: “Neanche televisione posso fare?” agghiaccia ancora oggi, per lo sguardo sul precipizio del mestiere, e della seconda impossibilità, col sorriso spianato. Avercene, di Bakshi, e questa sera l’avranno, proiezione en plen air a Piazza del Popolo, anche a Pesaro: The Party (titolo originale) inaugura la 54a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, tenendo fede a quel “nuovo”. Non si rottama, perché non reificabile; non s’archivia, perché non catalogabile; non si storicizza, perché furioso: non è sistema e non è antisistema, non è ’68 e non è Hollywood, ma impotenza al potere, e viceversa.
Ognuno di noi ha una battuta prediletta, una gag preferita da pescare tra vecchie rincoglionite e torrenti fittizi, elefanti imbrattati di slogan hippy e sexy starlette, fontane tronfie e camerieri ubriachi, produttori anti-comunisti e, ovvio, lui, Bakshi, un esotico Candide, un disarmato pronto a tutto, un “indostano autentico” che sempre si scusa e sempre se ne frega, tirando dritto tra proverbi improbabili (“Saggezza è compagna di vecchiaia, ma il cuore di un fanciullo è puro!”) e probabili affondi (il colonialismo inglese in India, giacché il film annullato da Hrundi è Son of Gunga Din, chiaro riferimento al Gunga Din di George Stevens del ’39). Si parte subito in salita, con la comparsa indostana incarnata da Sellers che per allacciarsi un sandalo fa saltare in aria un fortino sul set: il direttore di produzione Divot pretende che Bakshi non lavori più nel cinema, salvo ritrovarselo al party esclusivo organizzato proprio dal produttore di Son of Gunga Din, Clutterbuck.
Ne vedremo delle belle, matte e istrioniche, affidate al talento reattivo di Sellers: uno script di nemmeno 50 pagine per suggeritore, l’improvvisazione per regola, il gioco per assunto, ed ecco l’insuperato apologo del disagio, perché – ha osservato Andrea Meneghelli – “The Party sviscera ancora, meglio di qualsiasi altro film, la tragedia e la complessità di un sentimento importante: l’imbarazzo”.