Il Messaggero, 16 giugno 2018
Vittorio Giovanni Rossi, qual giramondo che raccontò l’universo
Gli inglesi hanno Joseph Conrad, i francesi Pierre Loti. Scrittori e uomini di mare, che dalla vita trascorsa tra le onde hanno distillato pagine di filosofia: la solitudine, e la costante vicinanza della morte, sono un ottimo viatico alla riflessione. Anche noi abbiamo il nostro Conrad e il nostro Loti. Quest’anno ricorre il centoventesimo anniversario della sua nascita, e il quarantesimo della sua scomparsa. Poche settimane fa, il comune di Santa Margherita Ligure gli ha dedicato una sala nel museo di Villa Durazzo. Il suo nome, Vittorio Giovanni Rossi, forse non dice molto ai lettori di oggi, come gran parte degli scrittori contemporanei saranno sconosciuti ai lettori di domani. Ma per chi abbia voglia di rianimare la mente, il cuore e la fantasia, i libri di Vittorio G. Rossi sono un scoppiettante antidoto alla ripetitiva quotidianità della politica, dei pettegolezzi e delle disgrazie.
Rossi sa descrivere le meraviglie dell’infinitamente piccolo, come un atomo o un neutrino, e dell’infinitamente grande, come le implosioni delle supernove o il turbinio delle costellazioni. In un prosa asciutta e ritmica, riesce a evocare i misteri dell’esistenza proprio mentre si occupa di cose apparentemente banali. Mentre mangia una galletta di marinaio, o un dattero nel deserto, sotto le stelle dei tropici o tra le dune dell’Arabia, lui si domanda come sia possibile che un encefalo di pochi centimetri cubi, protetto da ossa robuste ma composto da miliardi di fragili sinapsi, possa concepire l’Universo, elaborare la teoria della relatività, o comporre una sinfonia.
Anche se non lo cita quasi mai, Rossi ha sempre in mente Pascal: noi siamo un fuscello, ma un fuscello che pensa. E per lui il pensiero non nasce da una solitudine introspettiva, ma da una straordinaria e prorompente vitalità. «Bisogna scrivere con la propria pelle diceva cioè prima vivere e poi scrivere». Lui, durante i suoi interminabili viaggi, non ha fatto altro che osservare, descrivere e pensare.
IL MANUALE
Era nato a Santa Margherita Ligure, l’otto Gennaio 1898, e a quattordici anni aveva già scritto un manualetto di attrezzatura navale. Entrò all’Accademia di Livorno, e ne uscì come ufficiale di complemento. Dopo la prima guerra mondiale svolse qualche missione militare, poi si dedicò interamente ai viaggi e ai libri. Nel 1930 pubblicò Le streghe di mare con la casa editrice Alpes, la stessa che diede fiducia all’opera prima di Moravia e di Alvaro. La fama arrivò con Oceano, che gli valse, nel 1938, il premio Viareggio. Poi fu un seguito di successi. Ma lui non si accontentò, non riusciva a scrivere stando fermo. Girò il mondo varie volte, e ne dipinse gli angoli più remoti. Non fu soltanto uomo di mare. In Sabbia tratteggiò l’orgoglioso isolamento dei beduini; in Festa delle Lanterne il torbido giro affaristico di Bangkok; in Cobra il fantasmagorico universo indiano, con i suoi riti, i pregiudizi e i misteri; in Fauna gli ospedali nel Kenya, tra gli storpi e i moribondi; in Tropici i riti funebri degli stregoni; e infine, nel Silenzio di Cassiopea, la straordinaria avventura dell’uomo che scruta il cielo.
L’IMMAGINE
Come Pierre Loti, aveva sempre vicina l’immagine della morte. Ma a differenza del francese, che quasi se ne compiaceva in un pessimismo voluttuoso e dolente, Rossi ne traeva un vigore virile. Pierre Loti si era creato un buon ritiro tra arredamenti di decadentismo quasi dannunziano, profumi esotici e visioni illusorie. Vittorio G. Rossi si vantava di adorare la focaccia ligure, il pesce azzurro e il vinello fresco. Chi legge Pecheur d’Islande è spinto, come si dice oggi, a tagliarsi le vene per lungo. Chi legge La terra è un’arancia dolce si sente come Ulisse, bramoso di partire, anche se è acciaccato, per seguir virtute e conoscenza.
I suoi libri, una trentina, furono tradotti in mezzo mondo; i suoi lettori lo ritrovarono, come inviato speciale, nel Corriere e in Epoca, allora il più diffuso settimanale italiano. Naturalmente il mondo letterario ufficiale lo ignorò, attribuendo la limpidezza del suo stile alla scarsa profondità del suo pensiero: era lo stesso rimprovero rivolto a Voltaire, e sappiamo com’ è finita.
L’OSTRACISMO
Ma vi fu un’altra ragione, meno accademica, di questo smorfioso ostracismo: Rossi, come altri scrittori che abbiamo qui ricordato, era allergico ai precetti della chiesa marxista. E benchè fosse stato il primo giornalista italiano a entrare in Urss nel 1951, o forse proprio per questo, conosceva le perversioni e gli inganni del comunismo. Naturalmente non se ne curò più di tanto. In realtà, di politica non scriveva quasi mai. Ma non si limitava ai viaggi e alle avventure. Era un grande divulgatore scientifico, e riusciva a spiegare in termini accessibili i segreti della Natura, salvo ammettere, da buon filosofo, che l’inizio delle cose e il loro principio sono avvolte in un impenetrabile segreto, e noi siamo egualmente incapaci di capire il nulla da cui siamo stati tratti, e il tutto in cui siamo stati inghiottiti. Anche in questo, naturalmente, c’era lo zampino di Pascal. Tuttavia non si arrese mai a uno scetticismo rinunciatario. Spiegò le due teorie (allora) in voga sul destino dell’Universo, una che lo vuole in continua espansione, l’altra che lo considera una fisarmonica che si dilata e si contrae, invitando il lettore a pensarci sopra, pur sapendo che una risposta non c’era. Da uomo di scienza, non si faceva nessuna illusione sulla provvisorietà delle sue conclusioni. Ma le battaglie più nobili sono quelle perse in partenza.
Tuttavia, da roccioso marinaio, preferiva le battaglie vinte a quelle perse, e gli uomini di azione a quelli di pensiero. Quando, nel 1965, morì Winston Churchill, Epoca, mandò lui a raccontarne i funerali. Ne uscì un gioiello di ardore commovente e di patriottismo, virile, forse perché il vecchio Winnie aveva incarnato tutte le doti che Rossi ammirava: il vigore dell’immaginazione, l’amore per l’avventura, il coraggio del condottiero, l’emotività compassionevole, e naturalmente i buoni libri, il cibo e il vino. Chiuse l’articolo citando San Paolo: «Con Churchill, la morte si è abissata in vittoria». Anche per Vittorio G. Rossi, morto a ottant’anni, si può dire altrettanto: davanti alle inspiegabili e spesso brutali contraddizioni della Natura, non aveva mai cessato di amarla, e in questo duello ne era uscito vincitore. Quanto al tentativo di farcela amare, quella era un’altra nobile battaglia perduta.