Corriere della Sera, 16 giugno 2018
La collezione dei fratelli Agrati e quel mecenatismo che osava
Quando la Seconda guerra mondiale lasciò Milano in macerie, ben presto l’urgenza della rinascita si identificò con il bisogno di sentirsi contemporanei. Le città sono lo specchio di chi le abita e vengono plasmate dalle avanguardie intellettuali, artistiche ed economiche che aprono la via immaginando il futuro. Milano salì in sella alla borghesia mercantile e industriale, che viaggiava e inglobava suggestioni in giro per il mondo e, in un paio di decenni, imboccò la sua strada anche attraverso provocazioni che con il tempo entrarono nell’anima della città, come la Torre Velasca.
Quel clima oggi si respira visitando la mostra «Arte come rivelazione» alle Gallerie d’Italia, dove è esposta, fino al 19 agosto, una selezione delle cinquecento opere donate dai collezionisti Luigi e Peppino Agrati a Intesa Sanpaolo. Luca Massimo Barbero, curatore dell’esposizione, individua una data cardine, «il novembre del 1970. Gli Agrati vissero in diretta l’evento di Christo che rimuoveva il telo bianco con cui aveva impacchettato il monumento a Vittorio Emanuele II di piazza del Duomo per coprire il Leonardo di piazza della Scala. Peppino commissionò all’artista alcune opere per il giardino della sua villa in Brianza e fu tra i mecenati di Valley Curtain, l’intervento ambientale che fece conoscere Christo quale pioniere della Land Art». Gli Agrati collezionavano arte contemporanea già da qualche anno, ma quella fu una folgorazione. «Intensificarono il dialogo con Fausto Melotti», continua Barbero, spalancarono gli occhi sull’arte concettuale e sul minimalismo, «di cui il grande neon di Flavin è emblema». Arrivarono i capolavori di Lucio Fontana, Alberto Burri, Yves Klein e Piero Manzoni, la pittura di «nuova figurazione» (Jannis Kounellis e Mario Schifano), la nascente Arte Povera (Piero Gilardi, Luciano Fabro, Mario Merz e Giulio Paolini). Poi la scoperta dell’America, con l’acquisto di opere sia della corrente Pop («ne è icona Andy Warhol e il suo monumentale Triple Elvis»), sia delle tendenze concettuali e minimali (Dan Flavin e Richard Serra). Entrano a far parte della raccolta Robert Rauschenberg e Cy Twombly, artisti concettuali come Bruce Nauman e Joseph Kosuth, «le cui ricerche sul linguaggio dialogano con quelle di Alighiero Boetti e Vincenzo Agnetti».
Non che Milano fosse tutta protesa al contemporaneo, in realtà si trattò del «lavoro carbonaro» di piccole gallerie, di una divulgazione e commercializzazione pazienti. «Erano anni eccezionali – racconta l’imprenditore e collezionista Ennio Brion —. Milano viveva un grande fermento, animata da artisti e architetti in dialogo tra loro. Con l’incubatore della Triennale. Sono gli anni di Fontana, Manzoni, Castellani, dei giovanissimi architetti che iniziarono a lavorare negli ultimi anni del fascismo e che ora vivevano la loro Liberazione. L’architettura è un’arte collettiva che plasma le città e ha una fondamentale funzione civile ed educativa. Opera in maniera subliminale: se è bella, anche se non te ne accorgi, ti migliora la vita».
La Milano di allora coglieva le sollecitazioni del Nord Europa, le elaborava e faceva scuola in tutto il mondo. Era finita l’epoca delle grandi famiglie aristocratiche e delle loro committenze, le nuove forme di mecenatismo passavano attraverso le imprese più illuminate (Olivetti, per fare un solo nome) e i collezionisti, che entravano in contatto con gli artisti attraverso le gallerie. I nuovi mecenati portavano i nomi di Giuseppe Panza di Biumo, Antonio Boschi e Marieda Di Stefano, Emilio Jesi, Riccardo e Magda Jucker e, appunto, i fratelli Agrati. La casa museo Boschi-Di Stefano (in via Jan 15 a Milano) parte da lontano, dal primo dopoguerra, ma comprende anche importanti opere degli anni Cinquanta e Sessanta. Così come la collezione Jucker, acquisita dal Comune di Milano, e quella donata dalla vedova di Emilio Jesi. Un caso emblematico è quello di Panza di Biumo. La sua casa Museo a Varese, donata al Fai nel 1996, è una delle più importanti testimonianze artistiche della seconda metà del Novecento a livello mondiale. Giuseppe Panza venne a contatto con gli artisti dell’Espressionismo astratto statunitense negli anni Cinquanta e da allora la sua ricerca fu incessante. Negli anni Settanta commissionò installazioni d’arte ambientale agli artisti californiani James Turrel, Maria Nordman e Robert Irwin. All’epoca, pochi visitatori comprendevano appieno le opere, ma con il tempo ci si accorse che in quella casa si stava sedimentando, attraverso l’arte, il futuro.