Corriere della Sera, 16 giugno 2018
Stregoneria , erbe e pregiudizio: l’arte femminile di curare
«Stringo i denti e diranno che rido». Nel 1588 Franchetta Borelli fu arrestata per stregoneria. Ricca donna di Triora, nell’Imperiese, e senza marito, Franchetta sapeva guarire con le erbe. Fu processata e torturata fino alla morte con i più atroci strumenti: cavalletto, corda, fuoco, schiacciapollici. Gabrina degli Albeti, vissuta a Ferrara nella seconda metà del Trecento, venne definita dal tribunale di Reggio Emilia mulier malefica, incantatrix, maliarda preparatrice di intrugli. Durante una udienza del 1428 Matteuccia di Ripabianca fu tra le prime a essere «registrata» con il termine di strega. Con aglio, assenzio, cinque cuori di ruta e cinque di erba stella Elena la «Draga» interveniva sui bambini colpiti da maleficio. Sono solo alcuni esempi. Vite (e morti) di guaritrici temute, venerate, perseguitate. Un libro ricostruisce la loro storia.
Medicina e stregoneria. Su questi temi indaga Erika Maderna in Per virtù d’erbe e d’incanti, volume edito da Aboca, azienda dal 1978 impegnata nello studio delle piante medicinali. Ed è un percorso tra magia e santità, tra superstizione e sapere, tra pregiudizio e libertà di espressione. Al centro, la donna, esaltata come guaritrice, temuta come incantatrice, odiata come fattucchiera, strega, malefica per quella propensione alla cura tipicamente femminile. Per quella grazia nell’accudire da sempre vista con sospetto (o forse invidia) dagli uomini.
Saper curare significa anche saper uccidere. Da questo punto di partenza l’autrice, esperta di antichità classiche, si addentra con profondità nella mitologia greca e latina, risale ai rituali delle «protostreghe alle origini del sapere», cita Demetra, la selvaggia Ecate, Circe che nelle Metamorfosi di Ovidio tratta erbe maligne e succhi per compiere un sortilegio contro la rivale in amore Scilla, Medea l’avvelenatrice, assassina dei propri figli. Poi, con un excursus storico e letterario, spiega la diffidenza del Cristianesimo nei confronti dell’arte magica, individua le origini della «grande caccia», ne segue le tappe: dal 1252 nei processi per eresia viene introdotta la tortura, per le donne è la fine, diventano protagoniste di persecuzioni, le loro confessioni sono atroci, «ricorrere alla logica – scrive l’autrice – non sortiva comunque alcun esito: la dichiarazione “s’io fossi stata strega vi farei del male”, pronunciata da Maddalena Serchia davanti ai suoi aguzzini nel 1625, suona come una beffarda ironia, nella banalità della sua evidenza».
Eppure, si nota nel libro, le donne sono sempre state «medichesse». Nelle società arcaiche la salute della comunità familiare era di pertinenza femminile; le conoscenze, tramandate di madre in figlia, erano legate alla terra, alle stagioni, alle fasi lunari. Per questo ogni curatrice era una potenziale malefica, per questo – a differenza dei medici «accademici» – le donne si rifacevano a consuetudini empiriche, al tocco della mano, alla comprensione «umana» del malato. Medicina alternativa, si direbbe oggi. Molto usata, anche se di nascosto. Tanto da diventare magia, a volte esorcismo.
Benvegnuda Pincinella, durante la devastante caccia alle streghe della Valcamonica tra XV e XVI secolo, fu condannata al rogo nonostante avesse curato la figlia del podestà di Brescia. Gostanza da Libbiano, processata nel 1594, fu arrestata perché conosceva le pratiche del «fare medicine». Storie di cure, oltre che di donne. Di ricette e di erbe, mandragora, canapa, stramonio, oppio, papavero, aconito. Di unguenti, balsami, intrugli, cerotti, decotti, infusi. Il libro si conclude con l’erbario minimo delle streghe: dalla A di Aconito alla V di Verbena. Maneggiare con cura.