Corriere della Sera, 16 giugno 2018
La notte in cui Oriana Fallaci riuscì a regalarci la Luna
Io sono nato nel novembre del 1964, e da piccolo – come tanti bambini di quegli anni – volevo fare l’astronauta. L’idea che questo fosse possibile – insieme a tante altre di quelle idee splendenti che circolavano liberamente nelle menti in quegli anni meravigliosi – riempiva il mondo, e lo rendeva una sorta di lavagna sulla quale tutto era consentito scrivere. E non era un vuoto esercizio intellettuale, un languore indefinito da divano, uno spleen da smidollati a fine giornata. No, si viveva davvero in un mondo nel quale ogni aspirazione, ogni ambizione, persino ogni sogno rischiava di avverarsi...
La notte tra il 20 e il 21 luglio del 1969 mio padre mi prese in braccio e mi mostrò la Luna che brillava tra i rami della grande magnolia che riempiva il piccolo giardino della casa che avevamo affittato a Vittoria Apuana. Mi disse che c’erano degli uomini, lassù. Ricordo tutto, come se fosse ora. Quella luce fredda, quel pensiero immenso, la sensazione d’essere in qualche modo già in viaggio verso la Luna, perché, in braccio a quel gigante di mio padre, mi ero già staccato di almeno un metro da terra. Sopra tutto, però, galleggiava la certezza assoluta che ci sarei andato davvero, sulla Luna.
Il tempo di crescere, andare a scuola, irrobustirmi un po’, e poi sarei sicuramente stato uno degli uomini che sarebbero partiti in cima a un razzo, infinitamente veloci e impauriti e speranzosi e felici, verso il Mare della Tranquillità...
Il libro migliore sull’impresa dell’Apollo 11 l’ha scritto Oriana Fallaci, e si intitola Quel giorno sulla Luna. Da tempo sto scrivendo un romanzo che spero di poter consegnare prima o poi a Elisabetta ed Eugenio, e nel romanzo c’è un personaggio, un padre, che racconta questo libro alla sua figliola formidabile e lontana, e dice queste parole: «...insomma lo devi leggere subito, lei è così piena di passione ed entusiasmo e competenza, e bravura... Si sente che crede a ogni parola che scrive, e poi sa tutto sulla missione. Non è che arriva lì e fa l’intellettuale che ci racconta le cose come le ha viste, e non sa una sega di nulla e finisce per raccontarci dei fatti suoi. No, lei ci racconta minuziosamente di tutti i problemi tecnici superati per arrivare al giorno del lancio, ci spiega la procedura di allunaggio, com’è fatto il modulo Lem, ci dice di tutti i pericoli di contaminazione, sia dalla Terra sia dalla Luna, e insomma si capisce perfettamente che non solo si accorge di aver la fortuna di poter assistere a uno degli avvenimenti fondamentali della storia, ma che ha studiato a lungo per esser testimone di uno di quei momenti in cui il mondo cambiava per sempre.
Perché lei era lì, proprio lì, al centro d’ogni cosa, a Cape Canaveral, a vedere coi suoi occhi la partenza del razzo Saturn sulla cui cima era appollaiata la capsula degli astronauti, e dopo il lancio era salita su un aereo e si era precipitata a Houston, al Centro di Controllo, per vedere come andava a finire la missione.
Aveva conosciuto gli astronauti, sai? Neil Armstrong e Buzz Aldrin e Michael Collins. Li aveva intervistati un sacco di volte. Aveva cenato con loro e con le loro mogli. Dice che erano dei borghesi di provincia e non erano poi così emozionati di far parte di quella cosa immensa. Avevano una missione e dovevano portarla a termine, tutto qui. Era una normale conquista tecnologica, dicevano, e del resto ci voleva gente così, fredda, che arrivata nel Mare della Tranquillità non si mettesse a poetare, perché avevano pochissimo tempo e dovevano riportare indietro venticinque chili di pietre lunari e un sacchetto di polvere del suolo, lasciar lì un sismografo e uno specchio, rispondere alla telefonata di Nixon, e piantare la bandiera americana.
E alla fine del libro c’è un pezzo meraviglioso in cui la Fallaci trascrive tutta la telefonata alla redazione dell’“Europeo” – era un settimanale famoso di quei tempi – nei momenti del lancio, e continua a dire che Giulio Verne aveva già descritto quella missione, un secolo prima, e anche la sua astronave partiva dalla Florida, d’estate, e ospitava tre uomini. Dice che ci sarebbe voluto Omero a raccontare del grande passo per l’umanità, altro che lei! E quando si accendono i motori del Saturn e comincia il conto alla rovescia degli ultimi secondi, la sua voce si incrina e racconta d’aver pianto mentre racconta di uno spostamento d’aria che ci ha quasi buttato per terra, e d’un fragore che sembra un bombardamento ma non ammazza nessuno.
Dice così, te lo voglio scrivere esattamente, parola per parola: Oh, che cosa stupenda... si alza così lentamente, sai, lentamente... va sulla Luna... la Luna... Vorrei che oggi nessuno morisse».