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 2018  giugno 16 Sabato calendario

Ritratto di Lazzarone, Mr. Wolf e sindaco ombra allo stesso tempo

Le cene, beh, le cene. Certe erano malinconia trasversale, porto, lanterna e se ghe pensu. E certe sere i genovesi più accorti potevano scorgere lui, Luca Lanzalone, lanciato nel ruolo nazionale di Aggiustatutto grillino, con il suo antico mentore, Marco Desiderato, e l’amico di sempre, il console dei camalli Tirreno Bianchi, insomma il Nuovo mondo nuovo e il Vecchio mondo nuovo seduti a chiacchierare davanti a una trofia al pesto del ristorante Europa in galleria Mazzini.
Dopo sere del genere, Desiderato, antica volpe democristiana, si lasciava sfuggire frasi simili: «Stanno offrendoci vari ministeri, ma Luca li ha rifiutati tutti», così, al plurale, con una debolezza che svelava in realtà, più che ambizione propria, affetto per quell’allievo di navigazione nel mare procelloso di politica e affari. 
Le cene dicono molto di noi e moltissimo nella storia sino a ieri fortunata di questo avvocato che, con scarsa fantasia e zero eleganza, il costruttore Parnasi aveva ribattezzato Mister Wolf (lo spiccia-problemi di Pulp Fiction). Qualche testimone racconta di quanto Virginia Raggi lo supplicasse per una pizza, «e dai, almeno una pizza!», soggiogata com’era dalla competenza tranquilla di questo professionista allampanato e cortese, capace di piacere a un camallo marxista sul molo o a Bill Clinton su un campo da golf. Qualche ex dirigente capitolino, chiedendo un comprensibile anonimato, si spinge a sostenere che «Lanzalone era il vero sindaco di Roma», tanto che nel suo ufficio all’Acea si facevano tutte le riunioni per il concordato dell’Atac. E questo non perché fosse il dominus occulto di Atac ma – di più – perché Atac era un asset importante del Comune di Roma e «al Comune lui metteva becco su tutto»: palesemente.
C’è da credere che, come ai cavalli di razza della Prima Repubblica, il potere gli sia sempre interessato più dei soldi, che pure non gli dispiacevano ma che aveva avuto sin dall’infanzia. Famiglia della Genova danarosa con palazzo seicentesco in vico dei Giustiniani affrescato dal Piola, imparentato con la più grande (e ricca) agenzia di pompe funebri della città, la Campirio & Mangini, associato a studi d’avvocati a Miami e New York, sposato con una notaia di Crema che deve averlo introdotto tanto da indurre il sindaco della cittadina ad augurargli pronta riscossa giudiziaria, questo gran maestro d’affari riservati non sempre ha mostrato l’affidabilità per la quale è rinomato. 
Poco più che ventenne (col filippino di casa che lo chiama ancora «signorino»), milita nei giovani socialisti in un Psi che sta per agonizzare sotto i colpi di Mani Pulite. «E ci ha fatto perdere un congresso per le balle che sparava», sostiene un antico sodale (anche qui, niente nomi: il nostro Aggiustatutto potrebbe sempre tornare in auge...). Era il congresso del 1991 e Lanzalone sembrava optare per la corrente Cerofolini («soprattutto perché Cerofolini padre era stato sindaco e il nostro eroe è sempre stato affascinato dal potere», ci racconta la fonte). Un giorno il nostro se n’esce annunciando «un accordo coi fossiani», la corrente del sottosegretario Francesco Fossa di Pegli: «Compagni, abbiamo vinto il congresso!». Peccato che i fossiani avessero già chiuso un accordo col gruppo di Luca Josi... «Qualche anno dopo me lo ritrovo in moto al semaforo e mi annuncia: “Son passato con Tonino, sono il suo referente a Genova”. Tonino era Di Pietro, appena entrato in politica», chiosa perfido il compagno dei tempi andati: è l’infanzia d’un capo. 
Poi si cresce. Si impara a misurare le parole. La scuola di un vecchio dc che guida per anni la finanziaria della Regione Liguria è preziosa quanto gli ottimi studi di diritto amministrativo. «Io non ho una veduta mia, porto avanti la veduta del mio cliente», diventerà il suo mantra. Nel deserto che scaturisce alla fine della Seconda Repubblica, uno dalle vedute così...elastiche diventa un guru. 
Il resto è ascesa veloce. Decisivo l’incontro con Alfonso Bonafede, allora giovane avvocato a Firenze. Vero king maker del gruppo, il ministro della giustizia porterà ai Cinque Stelle l’attuale premier, Conte (suo professore), e la sua alternativa, poiché forse, per lunghi, inebrianti momenti gli uomini di Casaleggio soppesano l’eventualità di mandare Lanzalone ad «eseguire» il contratto di governo. In mezzo c’è molto: il salvataggio dell’Aamps nella Livorno grillina di Nogarin, il «merito che va premiato», come dirà Di Maio; l’arrivo nelle stanze del Campidoglio come consulente della Raggi e sulla poltrona più alta dell’Acea. L’immancabile Bisignani, il percolato pettegolo di Dagospia. Le terrazze. Il tepore di una Roma che sempre ammalia prima di uccidere. 
L’Atac è luogo scivoloso, dove sdrucciolano via per anni venti milioni anticipati a Parnasi per la costruzione della nuova sede a Castellaccio, un palazzo affittato prima d’essere costruito, assurdità amministrative che ingolosiscono la Procura. Infine lo stadio: l’inchiesta su cui tutto si catalizza, la prima grande rogna della Terza Repubblica forse mai nata. Alla conferenza stampa per gli arresti una sua collaboratrice si spaccia per giornalista, viene smascherata dai carabinieri e interrogata dai pm. Tutto a Roma è sempre a metà strada tra tragicommedia e spy story alla gricia. Sapendolo, bisognerebbe volare bassi. Ma è una parola. Le ultime volte, Desiderato lo rampognava, «stai esagerando, non esporti»: vicino a Pallotta per Roma-Juventus, vicino alla Raggi per il Gran Premio di «Formula E» all’Eur, come un sindaco dei sindaci. Chissà se nello slang greve del generone romano Parnasi gli ha detto, a cena col leghista Giorgetti: «Sto a ‘ffa er governo!». E chissà se allora, almeno allora, lui ha rimpianto per un attimo le sue cene genovesi, col vecchio dc e il vecchio camallo. Le microspie non lo registrano, un po’ ci piace crederlo.