Corriere della Sera, 16 giugno 2018
La stampella di Tabarez
Quando all’ultimo minuto il difensore Gimenez è salito in cielo, o forse ne è sceso, per scrollarsi dalla testa il pallone della vittoria, l’intera panchina dell’Uruguay è rotolata sul campo. L’intera panchina tranne lui, Oscar Tabarez. L’allenatore si è alzato in piedi con la forza dei nervi, ha sollevato le braccia come se dovesse afferrarsi a qualcosa e poi è ricaduto di schianto, tradendo una smorfia di dolore: da tempo una malattia degenerativa gli ha risucchiato la vita dalle gambe. Ma Tabarez non si è fermato lì. Ha cercato una stampella incastrata tra le poltroncine e con quella si è issato a fatica fino ai bordi del prato per condividere la sua gioia.
In certi momenti – e vincere una partita dei Mondiali all’ultimo minuto è uno di quei momenti – il calcio ha il potere di restituirti la bambinitudine, che è cosa assai diversa dall’infantilismo. La bambinitudine non è lamento rivendicativo o fuga dalle responsabilità, ma una scintilla di purezza che gli adulti si rassegnano a imprigionare tra le sbarre dei pensieri. Qualche volta, però, la scintilla si libera e ti aggancia al presente, alla vita vera. La sua è una spinta irresistibile, più forte persino delle tare del corpo in cui si trova. Quell’anziano bambino che esulta con la stampella è lo specchio fedele della condizione umana, dei suoi limiti e delle sue potenzialità.