Corriere della Sera, 15 giugno 2018
Il problema infinito sul nome della Macedonia
Se il nome è un destino, quello della Macedonia è una maledizione. Da 27 anni, si consuma nel cuore d’Europa una discussione che spazientirebbe perfino Madre Teresa, la macedone più santa: nessuno può chiamare Macedonia la Macedonia, perché con la fine dell’ex Jugoslavia non piacque ai greci che quelli di Skopje si ribattezzassero in quel modo, scippando ad Atene il nome d’una loro regione, mostrando mire egemoniche. Visto quel che accadeva nel resto della regione, dove per molto meno si sterminavano interi popoli, fu meglio soprassedere. Costringendo da allora il mondo a usare l’incomprensibile acronimo Fyrom (Former Yugoslavian Republic of Macedonia), spingendo i macedoni a rinunciare a Ue e Nato pur di tener duro, obbligando i greci a chiudere confini e commerci. Per lustri s’è litigato sui colori delle bandiere, su autostrade e aeroporti dedicati ad Alessandro il Macedone, boicottando turismo ed export. Qualche giorno fa, grazie a nuovi governi e alla mediazione Onu e a una sfinente serie d’incontri, s’è raggiunto lo storico accordo: basta Fyrom, niente «Ilinden» (dal movimento che nei primi del ‘900 si rivoltò agli Ottomani), il Paese d’ora in poi si chiamerà «Repubblica di Macedonia del Nord». Un tweet dei premier Tsipras e Zaev, l’annuncio d’un referendum, il plauso di Usa ed Europa, l’invito ai primi gala di Nato e Ue. Tutto risolto? Macché. In poche ore, i due Paesi sono stati travolti dalla crisi politica: a Skopje, per il presidente Ivanov che dopo due minuti di colloquio ha messo alla porta Zaev, rifiutando di firmare un patto «illegale, irresponsabile, opaco, negazionista»; ad Atene, per le opposizioni che hanno sfiduciato Tsipras. In fondo cosa c’è in un nome? Ciò che chiamiamo Macedonia, parafrasando il Poeta, anche con un altro nome conserva il suo profumo. Si litiga sulla lingua, si parla alla pancia. Si scherza col fuoco dei confini. La storia non è mai maestra di vita. Soprattutto nei Balcani.