La Stampa, 15 giugno 2018
La notte che l’impero asburgico andò a morire sulle rive del Piave
Il fiume. Finalmente. Davvero il suo eterno «mormorare». Ora che mi son lasciato dietro la diga nuova che gli impone un rombo sordo e ho risalito la riva, cammina di nuovo lento il Piave, restituisce alle acque sonore il giusto contrappunto del silenzio. Un temporale si addensa sul faraglione scuro del Montello, che così, nel buio, ha l’aria di prua di un battello incagliato; la corrente sorseggia la luce dei lampi, subito moribonda. I tuoni si rispondono, rivaleggiano infuriano, un clamore di fucina infernale si spande nell’aria come quando gli obici austriaci e italiani facevano vibrare lo spazio.
Qui cento anni fa vincemmo, in fondo, l’unica battaglia della nostra Storia: la battaglia del Solstizio, nove durissimi giorni…Vittorio Veneto che ne seguì, nell’autunno, fu solo affannoso inseguimento di un esercito liquefatto, già materia morta. Per aumentare, e fu invano, gli zeri sulla cambiale della pace. Cercare i segni, l’eco di una guerra di cento anni fa… ha senso tutto questo? Mentre nuove guerre e massacri infuriano, e vivi e tremendi? Sì. Val la pena tornare qui. Di ogni corpo sepolto, di ogni storia conclusa la terra che li ricopre e li nasconde alla vista va scavata e sciolta nelle mani lentamente, perché è in essa il senso, l’odore, l’umido e il secco, la grana della materia che forma ancora lo scheletro, la semplice struttura di verità che ne resta. Il solstizio del 1918: la nascita, vera, di una nazione.
Sono andato ieri sul fiume di notte. Perché il 15 giugno del 1918 gli austriaci attaccarono alle tre. Ecco: i soldati accucciati nelle trincee scavate sul bordo e a zig zag sulle pendici del Montello, le canne dei fucili piegate verso il basso per proteggerli dall’acqua. Sanno che i gli austriaci attaccheranno, disertori cechi e ungheresi hanno portato informazioni preziose.
Già qua è là lungo il fronte il cannone nostro tuona, una batteria più vicina precipita i suoi colpi, cerca le colonne dense in attesa dall’altra sponda, l’artiglieria ancora indifesa nelle conche di raduno. Avevamo perso 3000 cannoni a Caporetto. Ora ne abbiamo settemila. E questo fu il vero miracolo. Industriale, produttivo, moderno: di un Paese ancora di cafoni e analfabeti.
L’immaginazione comincia a popolarsi di fantasmi. È l’ora delle idee tetre … dio buono! un altra battaglia …ancora.. Pochi tra loro son sopravvissuti al Carso odiato maledetto bestemmiato, ma lo conoscevano dolina per dolina sentiero per sentiero, loro come il paese in cui eran nati. Qui il paesaggio è diverso: il Piave sembra più lago del Tagliamento dove, un anno fa, non si fermò il nemico, anche se i filoni di acqua sono rari e poveri, arbusti esili fioriscono sugli isolotti e la ghiaia li consuma un poco ogni giorno con abile fatica. Ma di là c’è una pianura grassa e non le gobbe infinite, nude come il calvario. E quella è terra nostra, da riconquistare. La guerra degli aggrediti, la sola forse che sappiamo fare. Sono contadini questi, in maggioranza; sentono salire un profumo di terra e di acqua che non se ne trova uno eguale.
Sì: qui il mondo sembra aver ritrovato il senso della superficie, è ridiventato orizzontale, qui sembra più facile combattere. Adesso nessuno parla più. Sentono una cosa aspra nella gola, qualcosa di rappreso che gratta dentro come nei giorni che si sparge il concime o si da il verderame alle viti e soffia un po’ di vento. È così che comincia, dentro. La battaglia. Aspetti che finisca il silenzio, allora saprai se devi morire.
Nel caffè del «bosco della Serenissima» (Venezia tagliava qui il legno per le galere) come tiepidi soffi di scirocco mi giungono parole dette piano, brevi risate: «il fiume… il fiume non è più quello, era dieci metri più alto allora sono le dighe quelle costruite negli anni trenta che hanno cambiato tutto». Era il tempo delle piene, furenti, tremende. Mi mostrano sull’argine la tacca di quella del 1888. È più alta delle case di oggi: sterminatamente sembrava che a perdita d’occhio le acque del Piave coprissero il mondo come al tempo di Noè. Già: dove ora hanno piantato le viti, filari snelli ed eleganti come signorine. Per dar alle radici più terra qui triturano le ghiaie del fiume. La vita è una pianta dura, forte, invincibile. A migliaia fuggirono dalla fame in Brasile: migranti, quelli nostri che abbiamo, svelti, dimenticato. E la pietà che si portavano addosso. Come altri, ora.
È giorno. camminiamo seguendo le pieghe della prima linea tra argine e monte. Il paesaggio è solenne, di una misteriosa solennità come accade ovunque dove la natura rivela ancora la una sua nuda forma antica simile a quella delle origini del mondo. Mi accompagnano Paolo Zanatta, assessore di Neresa e Paolo Gasparetto, speleologo: conosce le 94 grotte del Montello, le sue piante, il fiume. Mi racconta degli «zattèri» che facevano i trasporti sul fiume, a cui le dighe tolsero il mestiere, e allora andarono, indomiti, sulla Drava e il Danubio a rimettere a frutto la loro arte antica. Sfruttando le grotte, allargandole, gli italiani costruirono postazioni per le mitragliatrici. Sono ancora lì, ora nascoste da un bosco fitto che nel 1918 non c’era. Alla «basa de banes» il suolo ha l’aspetto fangoso e molliccio del letto di un fiume disseccato. Do una occhiata dalla feritoia. Sulla riva opposta c’è ancora una fattoria, «casa Mica», gli ufficiali austriaci di lì guidavano la battaglia. Volevano dilagare nella pianura di Treviso e poi oltre. Vincere la guerra. Un’altra Caporetto, definitiva stavolta, senza remissione.
Era per l’impero rinseccolito l’ultima occasione. E lo sapevano, i generali del giovane imperatore Carlo. Il destino era già stato benevolo, non avrebbe loro concesso altro. Nella cripta dei cappuccini, nel Neuer Markt, centoquaranta membri della dinastia augusta aspettavano quell’ennesimo soprassalto. Guidavano una armata di affamati, tenuti in piedi con 500 grammi di pane e 120 di carne al giorno. Ma nelle retrovie, a Vienna e nell’impero, per i civili la vita era ancor più guasta. Il 27 maggio i tedeschi avevano attaccato a Soissons, preso quarantamila prigionieri francesi, erano sulla Marna, di nuovo, a 60 chilometri da Parigi.
È cominciata. Dal Grappa fino in fondo al Piave, su 130 chilometri, la pianura è illuminata dalle vampe dei cannoni, per mezzora la linea del fronte appare come una sterminata imponente barriera luminosa. Le colonne austriache gettano fragili ponti, altri spingono a remi, furiosamente, lunghe barche sottili. Poveri sconosciuti, poveri nostri simili! adesso tocca a voi. Tocca a voi nell’assalto sentire il cielo esplodere sopra la testa e la terra sprofondare sotto i piedi aggredita dalla epidemia di proiettili, tocca a voi essere spazzati via dalle folate di un uragano centomila volte più potente di qualsiasi uragano. Eccoli! prima che la scarpata del monte li renda invisibili… presto! la mitragliatrice! Siamo ormai incatenati inchiodati e incatenati dalla reciproca fratellanza. Sul greto si allungano sagome distese immobili, affiancate dove le ha colte la raffica. I colpi impietosi ancora crivellano la schiera immobile. La chiameranno l’isola dei morti.Una tempo quando un avvenimento era trascorso diventava per me come una casa o un albero che scompaiono alle nostre spalle quando, percorrendo una strada, si arriva a una curva. Ora invece è come se le cose già accadute e lontane nel tempo non sparissero. Paiono diventare più alte, più imponenti come se per uno strano processo di osmosi quello che un tempo era avvenire si fosse silenziosamente trasferito al passato.
Saliamo su e giù per le strade che tagliano le ventun «prese» del Montello, le partizioni della riforma agraria di fine ottocento che lo frazionò, ai «bisnienti», i doppiamente poveri le zone aspre e inutili, ai ricchi le altre. Immagino il bosco in quelle notti di battaglia: fantastiche tenebre piene di frastuono e di fiamme gialle saettanti dalle bocche dei cannoni, a intervalli in direzione del fiume un bengala cade lentamente, così che gli alberi e gli uomini acquattati gettano lunghe ombre nero verdi sommergendo il bosco in un strano bagliore di desolazione.
Passiamo accanto a Sant’Eustachio dove Giovanni della Casa scrisse il Galateo, uno scheletro sottile di abbazia, simile a un pezzo di carta straccia. Nei giorni della battaglia aveva scintillato nei vapori e come nebbia, una nebbia fitta e plumbea, la polvere si era levata sull’abside mentre le bombe la demolivano pezzo dopo pezzo. In fondo a un sentiero fangoso, alla «busa delle rane», la semplice croce di legno dove si schiantò il folle volo di Baracca che mitragliava i ponti austriaci sul Piave. Anche la pioggia ci aiutò travolgendo i ponti di barche austriaci, rendendo il fiume una bestia intrattabile. «L’Immaginifico» piegò per lui il vocabolario: la Piave dei veneti, e dei latini, divenne il Piave, «il maschio fiume». Un generale, riconoscente ne baciò le acque. Come a una amante.
Scendiamo a Giavera. Qui fermarono gli austriaci nel tardo pomeriggio del diciassette giugno una carica dei lancieri di Firenze e un gruppo di arditi. Era la terza linea. Dopo non c’era più niente.