il Giornale, 15 giugno 2018
Il mammut rinascerà per salvare il pianeta
Nella mistica popolare russa la Siberia è sempre stata percepita come luogo di visionarie imprese e di prosperità. In fondo anche i campi di lavoro zaristi dovevano redimere i criminali e produrre ricchezza dalle miniere. Stalin applicò la formula su scala industriale con i gulag. Oggi la regione di Kolyma, cimitero di un milione di vittime dello stalinismo, sta diventando laboratorio di un esperimento fanta-geologico degno di un kolossal di Steven Spielberg, il ritorno al Pleistocene.
L’idea è di riprodurre il mammut, quella specie d’elefante peloso che abitava, insieme a bisonti, renne e tigri, le steppe erbose al tempo dell’era glaciale, un ecosistema che s’estendeva dalla Spagna allo Stretto di Bering e fino al Canada. Ora un team di genetisti di Harvard sta clonando cellule di elefante asiatico contenenti piccole componenti del Dna del mammut; a Boston contano di generare entro due anni una creatura proboscidata coperta di pelo e dotata di uno strato di grasso capace di proteggerla dagli inverni della tundra siberiana. L’obbiettivo è di popolare intanto un’area sperimentale di Kolyma, il Parco del Pleistocene fondato da alcuni scienziati russi nel 1996 con l’obbiettivo di studiare e contrastare il disgelo del permafrost. «Il mammut scava nella neve e fa filtrare l’aria ghiacciata», spiega il professor Paul Church al Giornale, «mentre d’estate abbatte e stradica gli alberi che attirano più calore rispetto all’erba. Insomma potrebbero contribuire a creare un ambiente più simile alla steppa e contenere lo scioglimento del permafrost causato dal riscaldamento climatico, che nell’emisfero settentrionale, artico e pre-artico è doppio rispetto al resto del Pianeta».
Si sa che il «fattore P» potrebbe sballare tutte le previsioni e rendere vani i buoni propositi stabiliti a Parigi: quella terra congelata e contenente materia organica anche per centinaia di metri di profondità, come accade in Siberia, si sta risvegliando e potrebbe sprigionare ossido di carbonio e gas metano in quantità che gli scienziati non sono in grado di prevedere. «Era un freezer», dice lo scienziato, «ora assomiglia sempre più a un frigorifero, bisogna pure inventarsi il modo di rallentare il processo, i russi ci stanno provando». Ed è qui che dovrebbero entrare in campo i nostri geo-ingegneri pelosi. Il Pleistocene Park nell’Ukok plateau siberiano è un sito di soli 16 chilometri quadrati, fondato dal geofisico Sergei Zimov che è riuscito a popolarlo con un centinaio tra bisonti, buoi muschiati, alci, yak, cavalli selvaggi e renne, con lo scopo di osservare nel sottosuolo l’effetto della loro presenza. Ebbene, oltre a essere cambiato il paesaggio, il confronto con i sensori posti in altre zone nell’arco di centinaia di chilometri ha dimostrato come in questa enclave spoglia di alberi e coperta di erba il processo di scioglimento del permafrost sia decisamente più lento, «in alcuni casi addirittura bloccato», spiega il professore di Harvard. Da qui immaginare che il vecchio, nuovo mammut possa salvare il Pianeta sembra appunto roba da kolossal hollywoodiano. Ma quel che accade nel grande Nord russo è già un film dell’orrore. Si susseguono con sempre maggiore frequenza esplosioni di metano che provocano incendi e crateri vasti come i caseggiati realsocialisti. Nella spettacolare penisola di Yamal, sul mare di Kara, i Nenets, la popolazione indigena dei mandriani di renne, non chiamano più la loro regione «confine del mondo», ma zhivaya zemplya, la terra viva. Gli sciamani pensano che sia infine giunto il terzo stato dell’esistenza che essi suddividono nel regno alto, quello di Noom, lo spirito creatore, nel regno di mezzo, che è la terra con gli uomini e gli animali, e il regno di Nga, fratello di Noom, spirito della morte e della malattia che consiste in sette strati di ghiaccio, e nei tempi peggiori lo spirito della malattia emerge dalle tenebre scongelate. Che è quel che i mandriani hanno sperimentato nell’estate del 2016, la più calda di sempre, con temperature fino ai 40 gradi.
«Le renne hanno cominciato a mostrare stanchezza, poi spossatezza, quindi si accasciavano, perdevano il pelo, mostravano le costole. E morivano. A centinaia e a migliaia», racconta Andrei Listishenko, responsabile veterinario della penisola. C’era il caldo, che questi animali sopportano meno della cattività. Ma bastava a spiegare una simile strage mai accaduta a memoria di Nenets? Cominciarono a girare voci, per alcuni era l’azione di agenti stranieri, per altri una strategia di Gazprom, il colosso del gas, per sgomberare il terreno e impiantare nuovi pozzi. Intanto cominciavano a morire anche gli uomini. Poi arrivarono i referti dai laboratori di Mosca: antrace, il famigerato bacillus anthracis, una delle cinque piaghe d’Egitto, flagello narrato nell’Iliade e da Virgilio nelle Georgiche. «Come è possibile?», si è chiesto Andrei. Nell’Ottocento Louis Pasteur ha sviluppato il vaccino e l’antrace è stata debellata. Infatti erano zombie, batteri zombie risvegliati dal clima caldo e da quella terra che di solito si scioglie di 20 centimetri, ma nel 2016 la poltiglia è arrivata fino a raggiungere i due metri. «Le spore si sono svegliate e hanno ricevuto il messaggio che le condizioni erano favorevoli per ricominciare a mangiare e quindi a uccidere», dice Andrei.
Sembrano storie da Jurassic Park, degne di una penisola che si chiama «confine del mondo», ma quelle condizioni favorevoli sono le stesse che permettono alla regione di essere diventata l’Arabia saudita russa. Qui si estraggono dal permafrost 675 miliardi di metri cubi di gas, ed antro cinque anni Vladimir Putin ha promesso che saranno 360 miliardi. È l’altra faccia del cambiamento climatico, quella che cambierà gli equilibri mondiali: è da poco uscito uno studio combinato tra Stanford e l’università di Berkeley dove si stima che il Pil pro capite mondiale entro la fine del secolo calerà in media del 23 per cento, ma quello russo (con quello finlandese, islandese e mongolo) aumenterà del 400 per cento. Ma questo è tutto un altro film.