il Giornale, 15 giugno 2018
La jihadista in lacrime: «Mi manca mamma. Subito in Italia anche in galera»
Fausto Biloslavo
da Camp Roj (Siria)
«Voglio tornare in Italia, anche se dovrò andare in carcere», dice convinta Meriem. Subito dopo aggiunge: «Almeno riabbraccio la mamma, che mi manca tanto». E scoppia a piangere. Meriem Rehaily, 22 anni, jihadista della provincia di Padova di origini marocchine è stata condannata il 12 dicembre a quattro anni per aver aderito allo Stato Islamico. Dallo scorso anno l’abbiamo data per morta, lapidata dagli stessi tagliagole dell’Isis o addirittura rientrata clandestinamente in Europa. In realtà è prigioniera dei curdi da sei mesi. Non è stato facile incontrare la latitante rincorsa da un mandato di cattura internazionale nel campo off limits di Roj. Una tendopoli in mezzo al nulla nel nord est della Siria, sorvegliata dall’intelligence curda dove sono in custodia un migliaio di mogli dei miliziani del Califfato con i loro bambini.
Meriem è avvolta dal niqab che le lascia libero solo il volto con la pelle ambrata. «Sono una terrorista per il governo, ma in Italia non ho fatto niente. Dall’Isis ho subito un lavaggio del cervello – spiega Meriem -. Prima vivevo come una normale adolescente che andava a scuola e usciva con gli amici. Poi ho chiuso gli occhi e mi sono ritrovata in Siria». L’italiano l’ha imparato a scuola ad Arzergrande, in provincia di Padova. Da questo piccolo comune di 5mila anime è partita per la Siria nel luglio 2015, a soli 19 anni. «Mi ha attirato su internet Abu Dujana al Homsi, un giovane siriano che mi contattava via Telegram su una chat segreta – racconta la jihadista padovana -. Voleva sposarmi, ma ho rifiutato. Poi ha cominciato a dire che dovevo andarmene dall’Italia e raggiungere il Califfato perché Allah lo vuole».
L’adescatore è stato ucciso all’inizio della battaglia di Raqqa del 2017. Tre anni fa prima di imbarcarsi all’aeroporto di Bologna per raggiungere la Turchia, la giovane Meriem postava il giuramento di fedeltà al Califfo Abu Bakr al Baghdadi. E inviava a casa questo messaggio: «Scusa, cara mamma, ci vediamo in paradiso. Tutti per Allah».
Alle amiche e compagne di scuola mandava proclami ben più accesi: «Se mi chiamate terrorista ne vado fiera! Meglio vivere qui (a Raqqa, nda) che vivere tra di voi Kuffar... Kuffar! (infedeli, nda)». Abile con il computer, secondo gli investigatori del Ros di Padova era stata arruolata dall’Isis per la propaganda e la logistica nella brigata al Khansaa, composta da donne europee e russe. «Non è vero – si difende Meriem – ma all’inizio ho fatto l’hacker per l’Isis».
Nella storica capitale del Califfato, Meriem si rende ben presto conto che l’avventura delle bandiere nere si sta trasformando in un incubo. «Ho visto il vero Isis e non è lo Stato islamico che credevo – spiega adesso la jihadista – L’orrore dei bombardamenti (alleati, nda) mi terrorizzava. Quando ho aperto gli occhi era troppo tardi». Il Califfato l’avrebbe addirittura sospettata di essere una spia. «Volevo fuggire. Mi sono fatta inviare dei soldi da papà, ma sono stata presa e sbattuta per 52 giorni in una celletta», racconta la ragazza che si dice oggi «tanto pentita», come gran parte delle prigioniere dei curdi.
A Raqqa si sposa con un palestinese, «che ha combattuto contro i soldati di Bashar (il presidente siriano, nda)» e da lui ha avuto due figli, Farouk di un anno e mezzo e Basim di sei mesi. La famiglia lascia la «capitale» prima che si stringa l’assedio e, quando lo Stato Islamico viene spazzato via, cerca di raggiungere la Turchia. «Sei mesi fa i curdi ci hanno fermato a un posto di blocco – racconta Meriem -. Ho detto che ero di Aleppo, ma hanno scoperto che sono marocchina con la residenza in Italia».
Meriem era tornata in contatto con i genitori, che stanno cercando di farla tornare a casa. «Abbiate misericordia di questa famiglia che vive nell’inferno di avere perso la figlia. Una famiglia che non ha nessuna colpa se non quella che l’Isis ha rubato il fiore più bello della loro vita: Meriem», si legge nella toccante lettera indirizzata il 7 giugno alle autorità curde nel nord est della Siria da Redouane e Khadija, i genitori della jihadista padovana che vivono da tempo in Italia.
Meriem pensa che «l’Isis non sia finito» e rivela che «ci sono troppi jihadisti giunti in Europa all’insaputa dei governi» dopo il crollo del Califfato. E aggiunge: «Di donne (jihadiste, nda) ne conosco tante che sono riuscite a scappare attraverso la Turchia, ma non posso dire i loro nomi». Altre europee sarebbero ancora intrappolate nelle ultime sacche dell’Isis vicino al confine iracheno. Non possiamo uscire da un stanzetta delle guardie, dove due gentili ma inflessibili combattenti curde registrano tutto. Però Meriem ci tiene a far vedere il figlio più grande, Farouk, nel passeggino. La jihadista padovana vorrebbe scrivere due righe ai fratelli rimasti in Veneto, ma non è possibile. Mamma Khadija è sempre nei suoi pensieri: «Vorrei chiederle di perdonarmi, ma ormai è troppo tardi per chiedere scusa perché ho già fatto quello che non dovevo fare».
Nel campo che non possiamo né visitare, né filmare c’è di tutto: francesi, tedesche, maghrebine e due piccoli orfani americani della guerra santa. I curdi sostengono che nel campo non c’è Ismail Davud portato dall’Italia in Siria a tre anni dal padre, Ismar Mesinovic. Bosniaco, che lavorava come imbianchino a Longarone, si è radicalizzato sulle nostre Dolomiti in compagnia del macedone Munifir Karamelesky partito pure lui per la Siria. Mesinovic è morto in combattimento vicino ad Aleppo nel gennaio 2014. Davud dovrebbe essere stato adottato dalla famiglia Karamelesky o da altri musulmani della Serbia che potrebbero trovarsi a Camp Roj.
L’orfano della guerra santa oggi ha otto anni e sarà diventato un «leoncino» del Califfo tirato su a Corano e moschetto fino al crollo di Raqqa. La madre che vive in Italia ha inviato un pressante appello alle Unità di protezione popolari (Ypg), le unità curde che controllano il nord est della Siria e i campi di detenzione. «In nome di Allah, il Clemente, il Misericordioso, mi rivolgo a Voi nella consapevolezza che possiate comprendere il mio dramma – scrive la donna convertita -. Sono la madre di Ismail Davud e con il cuore infranto vi supplico, affinché possiate adoperarvi a farmi riabbracciare mio figlio l’unica persona in grado di darmi la forza per continuare a vivere».
www.gliocchidellaguerra.it