Scusi, ma lei non era la Grande Antipatica per antonomasia?
«Adesso sono Valentina, da atleta ero Vezzali. Non escludo di essere stata antipatica, come non escludo che tra quelli che mi dicono di tornare in pedana ci sia qualcuno che, quando ho annunciato il ritiro, ha pensato: finalmente ci siamo tolti di mezzo quella rompiscatole della Vezzali. Vede, lo sport ad altissimo livello ognuno ha il suo modo di viverlo. Io avevo bisogno di concentrazione, di caricarmi in silenzio. Se c’era mezza giornata libera le altre giocavano a pallavolo, io stavo da sola in palestra. Non ero la compagnona tutta pacche sulle spalle, però non ho mai parlato alle spalle di nessuna compagna, ho sempre rispettato tutti e tutte.
Antipatica? Mi scuso, ma seguivo semplicemente la strada che ritenevo giusta per portami al risultato, in accordo col maestro Tomassini. È ovvio che senza lo stress da competizione io sia diversa. Poi, qualcuno, forse Enzo Ferrari, disse che in Italia si perdona tutto tranne il successo. È vero. Io ho vinto molto, come la Juve. E come con la Juve il pubblico non conosce vie di mezzo».
A proposito: esiste un gol alla Del Piero, come esiste un gancio-cielo alla Kareem Abdul Jabbar. Esiste una stoccata alla Vezzali?
«No».
Non è strano?
«No. La scherma è sostanzialmente un fatto di testa, tutto il resto arriva a rimorchio. Si cambia in continuazione ed è il bello di questo sport. Stai parando un attacco e in una frazione di secondo devi organizzare il contrattacco. Si improvvisa. Delle avversarie sappiamo tutto, e loro di noi.
Eppure ogni gara fa storia a sé, i colpi che ti hanno fatto vincere oggi non funzionano domani».
Elisabetta Castrucci se la ricorda?
«Molto bene. Di Frascati, finalista con me del trofeo Prime Lame, nel 1984, al Palaeur di Roma. Per noi bambine di 10 anni era come l’Olimpiade. Ho vinto 5-1, mio padre m’ha buttata in aria e m’ha ripresa al volo».
Lei è nata a Jesi, ma i genitori arrivavano dal Reggiano.
«Sì, mio padre Lauro nato a Budrio di Correggio, mia madre Enrica di Quattro Castella, terra di donne forti, come Matilde di Canossa. Tutt’e due lavoravano in un maglificio di Carpi, che poi ha aperto uno stabilimento a Jesi. Mio padre, direttore del personale, era un uomo imponente e romantico, ha conquistato mia madre scrivendole poesie sul lato interno della stagnola dei pacchetti di sigarette. Solo dopo le prime due figlie, Maria Stefania e Nathalie, la mamma s’è decisa a raggiungere il marito. Io sono nata a Jesi, al posto giusto nel momento giusto, il giorno di san Valentino. Non particolarmente gradita, sulle prime».
In che senso?
«Dopo due femmine papà era sicuro che arrivasse un maschio, e anche mamma ci sperava.
Quando ha controllato e ha visto che non avevo il cosino, come dice lei, s’è messa a piangere».
Com’è arrivata alla scherma?
«Alle elementari ero l’unica della mia classe a fare sport, non era così scontato. Avevo iniziato col nuoto, ma non mi piaceva stare in acqua, avevo sempre freddo. Mia sorella Nathalie era amica di Giovanna Trillini e sono andata con loro alla palestra del maestro Triccoli, un uomo eccezionale che ha rivoluzionato la scherma.
Prima di lui si consultavano ancora i manuali ottocenteschi».
Ho letto che Triccoli aveva imparato la scherma da prigioniero di guerra in Sudafrica, a Zonderwater, tirando con un medico siciliano.
«Sì, ma poi ci aveva messo molto del suo, schierandosi contro gli accademici. Diceva che non avrebbe mai chiesto a un suo allievo di rinunciare a un colpo bizzarro o non del tutto ortodosso. Insegnava libertà, come Giulio Tomassini, suo allievo e mio maestro dal 1990. “Il pensiero blocca l’azione”, ama dire Tomassini».
Valentina, qual è il suo punto forte?
«In pedana, il senso del tempo, o dei tempi. È quasi automatico.
Per questo mi hanno chiamato Cobra e anche Mangusta. In pedana e fuori, non mollo mai.
Vedo una sconfitta come spinta alla prossima vittoria. Credo molto nell’allenamento, nel lavoro. Al nostro livello, sei ore al giorno. In genere ero la prima ad arrivare e l’ultima ad andarsene.
Nello sport come nella vita i traguardi bisogna conquistarseli».
A volte mi chiedo come si fa, nel suo sport, a fare un tifo sfegatato per una compagna di squadra che il giorno dopo può levarti una medaglia nell’individuale. Me lo spiega?
«Non è facile, potrei dire che sono le individualità a fare una squadra, e quando le individualità sono forti la squadra è forte. Quando ci allenavamo con Trillini, Bianchedi e Bortolozzi, erano allenamenti di straordinaria intensità. In squadra si tifa perché abbiamo la stessa maglia, rappresentiamo l’Italia e anche le poche stoccate della più scarsa possono servire a vincere una medaglia».
Si può essere amiche-amiche?
«Amiche ma non troppo. Il giusto di rivalità dev’esserci, sennò si perde un po’ d’agonismo, di grinta. Per le avversarie, rispetto».
Odio mai?
«Mai. Senza avversaria non c’è partita, non c’è sport. È una da battere, non da abbattere. È un aiuto, serve a misurare noi stessi.
Sono affezionata al cerimoniale: si parte col saluto delle armi al pubblico, si chiude stringendo la mano alle avversarie».
Chi ammirava, da giovane?
«Una tedesca, Anja Fichtel, e poi Giovanna Trillini».
Mi racconta le 4 stoccate negli ultimi 12” alla coreana Nam, Londra 2012? Mi pareva impossibile.
«Tutto è possibile, così bisogna pensare. Era quasi impossibile, lo ammetto, in così poco tempo. Ma ce l’ho fatta e poi ho vinto 13-12 e quel bronzo per me valeva l’oro.
Intanto, ha completato un podio tutto italiano. Il Dream Team. Per me era un momento psicologico molto difficile. Appena eliminata dalla corsa all’oro, dovevo battermi per il bronzo. Come se rimandassero sul ring un pugile appena finito ko. Ho iniziato male, come si fosse rotto un filo, poi ho pensato che ero portabandiera dell’Italia e dovevo battermi fino alla fine. Ci tenevo, a quell’onore, anche se sono stata tre ore in piedi prima di entrare nello stadio e il giorno dopo mi giocavo l’oro. Il giro di campo sembrava non finisse mai, avevo paura di inciampare, di cadere e di fare una figuraccia in Mondovisione. Per fortuna è andata bene. Voglio aggiungere che rimontando Nam ho sentito sulla testa le mani di mio padre e del maestro Triccoli. Mio padre è morto giovane, a 51 anni, di cancro ai polmoni. Le mie sorelle erano già fuori casa, mia madre ha dato tanto della sua vita a me e ai miei figli. Nel carattere credo di aver preso qualcosa da lei. Mi piacciono le sfide. Qualcosa ho dimostrato anche giù dalla pedana. Distrarsi fa male alla carriera degli atleti? Ho partecipato a “Ballando con le stelle” , mi sono divertita molto e ho continuato a vincere».
Fare figli è vivamente sconsigliato a una donna che fa sport?
«Ho due figli, entrambe le volte in gravidanza sono ingrassata di trenta chili, li ho persi e ho ripreso a vincere. Pietro, quand’ero in ritiro, stava con mia madre in un altro albergo. Scappavo di nascosto ad allattarlo. Ha 13 anni, gioca portiere e va benissimo a scuola. Dice che da grande farà il Presidente del Consiglio. Andrea ha 5 anni e s’avvicina cautamente alla pedana. Con mio marito ci siamo separati un anno fa da adulti responsabili. Importante è che non soffrano i figli. Lui li può vedere quando vuole e a volte càpita ancora di mangiare insieme».
Nella scherma, lei fa parte del Consiglio federale ed è membro del Consiglio Direttivo per la parte relativa agli atleti. Giusto?
«Sì, quali che siano le loro esigenze».
In politica, è stata parlamentare per Scelta Civica.
«Sì, occupandomi soprattutto della condizione delle donne e della scuola. Un’esperienza positiva».
La rifarebbe?
«Sì, se trovassi un partito in cui identificarmi».
Ha vinto un meraviglioso e spaventoso numero di medaglie. Dove le tiene?
«Un po’ qui un po’ là. In effetti non lo so, bisognerebbe chiedere a mia madre. Se la città di Jesi, 40mila abitanti, che oltre ai calciatori Mancini e Marchegiani ha prodotto quattro olimpionici di scherma, decidesse di aprire un museo della scherma, gliele darei tutte. Non mi piace esibire per il gusto di esibire».
Lei m’è piaciuta nella polemica sui posti in aereo, tornando da Pechino.
«Il Coni aveva promesso viaggio in prima alle medaglie d’oro. In prima c’erano i calciatori, che non avevano vinto l’oro, e il posto che mi spettava no, e comunque l’avrei ceduto a mia madre. Ho fatto un po’ di casino, mi sembrava giusto».
Era giusto. Qual è la vittoria del suo cuore?
«Quella su Elisabetta Castrucci , perché da lì è cominciato tutto».
Bilancio?
«Bilancio solo sportivo, per ora.
Avrò altre sfide. Alla scherma ho dato tantissimo e dalla scherma tantissimo ho ricevuto. Siamo pari».