Dopo ore di navigazione sembrava essersi ripreso, almeno un po’, e chiese di uscire in coperta.
Osservò le onde, sentì la brezza del mare e perse conoscenza. Fu il suo ultimo atto di libertà. Morales voleva scrivere un libro su di lui e sulle persone che come lui fuggono dalla guerra, dalla persecuzione politica e dalla tortura. Un libro sui rifugiati dunque. Ma Ulet non era un rifugiato, così come non lo erano la maggioranza delle duecento persone che Morales aveva intervistato. «Erano sfollati interni, mai usciti dai confini dei loro paesi o erano fuggiti ma non avevano ricevuto asilo». Nasce così Non siamo rifugiati, reportage di giornalismo narrativo in 17 paesi, lungo le rotte degli esodi che stanno trasformando il mondo, pubblicato in Italia da Einaudi. Oggi, mentre l’Italia chiude i porti e respinge l’Aquarius costringendola a fare rotta sulla Spagna tra onde alte quattro metri, Morales ripensa a Ulet e non ha dubbi: «Il vostro governo ha voluto lanciare un messaggio xenofobo mettendo a rischio la vita di 629 persone tra cui bambini e donne incinte».
L’Occidente non sa più cosa significhi la parola rifugiato?
«Negli ambienti xenofobi questo termine ha sostituito altre etichette come “migranti” o “terroristi”. In altri settori è servito a vittimizzare le persone in uno spettacolo di compassionevole egoismo».
Non è sempre stato così.
«Durante la Guerra Fredda la parola aveva un’aura di prestigio, riguardava anche scrittori, artisti, scienziati, uomini e donne illustri.
Oggi la guerra è stata decentrata e la maggior parte dei rifugiati lascia i paesi poveri e viene accolta dai paesi poveri. Non interessano più così tanto. Oggi Einstein rischierebbe la vita in un barcone».
I muri invece non abbiamo mai smesso di costruirli. Anzi, in Europa si sta parlando di allargarli.
«Non sono solo barriere fisiche, sono anche simboliche. Molte volte sono collocati nei punti che dividono strategicamente il Nord dal Sud, “noi” da “loro”. Sono il simbolo attraverso cui la politica esprime il suo potere e separa, divide, gerarchizza».
Chi li erige o li invoca sostiene che i jihadisti entrino in Europa insieme ai rifugiati.
«Non è solo disonestà morale, ma anche intellettuale. I gruppi terroristici non pianificano un attacco mandando una persona su una barca. Molti dei responsabili di attentati sono nati qui. Il problema del jihadismo è in un’altra dimensione, molto complessa, e le ultime cose di cui ha bisogno sono il populismo e la demagogia».
L’Unione europea accusa i trafficanti, sostiene che le vittime siano colpa loro.
«Le rotte oggi sono inumane, piene di abusi e violenze. Il modo migliore per sconfiggere il traffico di esseri umani non è costruire muri o lasciare che la gente muoia in mare, ma pensare a soluzioni politiche.
Negli ultimi cinque anni più di 16mila persone sono morte nel Mediterraneo. Sono numeri di guerra. Penso che sia il problema di sicurezza più serio in Europa».
Lei si è imbarcato sulla Dignity I, nave di salvataggio di Medici senza frontiere. Il codice di condotta per regolamentare i salvataggi in mare è stato davvero un deterrente agli sbarchi?
«Esistono dinamiche molto complesse che spiegano perché in alcuni anni arrivano più persone e in altri meno. Il codice di condotta aveva lo scopo di rimuovere le Ong dal mare, ridurre i salvataggi ed evitare testimoni. Durante diverse operazioni di soccorso, uomini della guardia costiera libica, pesantemente armati, hanno intimidito le navi delle Ong. Quelle stesse persone oggi ricevono finanziamenti dalla Ue».
E poi ci sono i respingimenti.
L’Italia ha appena detto di no allo sbarco della nave umanitaria Aquarius...
«Il ministro degli Interni italiano chiama vittoria il respingimento di una nave di salvataggio. Esibisce cinismo e demagogia senza limiti».
Lei ha raccontato chi sono le persone che scappano e perché lo fanno, ha descritto le rotte che seguono, le condizioni in cui viaggiano, i campi dove vivono.
E ha scelto di farlo attraverso il giornalismo narrativo, perché?
«Una cronica deve emanare odore, tatto, gusto; deve avere una precisione linguistica, essere consapevole di se stessa e delle parole che pronuncia. La formula che ho trovato per trasportare il lettore su una nave di salvataggio non era la descrizione impersonale, ma la scrittura di frasi successive che erano come onde, che oscillavano, che cercavano di riprodurre la sensazione che avevo a bordo. Ci sono persone che hanno l’idea preconcetta che il cosiddetto giornalismo letterario sia ingombrante e pretenzioso.
Suppongo che ci siano dei testi mediocri che hanno contribuito a questo, ma dovrebbe essere il contrario. Per me le cronicas di Martín Caparrós o Leila Guerriero non mi sembrano solo più belle delle notizie, ma molto più efficaci».
Cos’ha imparato in questi dieci anni di lavoro?
«Che c’è sempre qualcuno più in basso di te, anche tra i rifugiati. Non dimenticherò mai gli afgani, che sono stati in guerra per più di trent’anni, fingere di essere siriani per raggiungere l’Europa nel 2015. Pensavano che avrebbero avuto più chance perché la Siria era la guerra più conosciuta».
Si è mai sentito un ladro di storie?
«I giornalisti lo sono. Entriamo in una vita straniera, facciamo domande, partiamo, scriviamo le risposte, le pubblichiamo ed è finita. Ovviamente, penso che la voce di molte persone debba essere ascoltata e questo è uno dei motivi, non l’unico, per cui scrivo. Ma ho un senso di colpa permanente. Detesto che ci siano giornalisti in posa come eroi. No! Siamo ladri. L’unica cosa che può essere detta a nostro favore è che siamo ladri necessari».