Sta dicendo che Trump gestisce i destini del mondo come quelli di una grande azienda?
«Per lui tutto è show business.
Naturalmente penso sia cosciente che negoziare un trattato commerciale con la Cina non è la stessa cosa che aprire un casinò ad Atlantic City. Ma crede nel suo istinto e gli viene più naturale ascoltare la sua esperienza che seguire i consigli altrui».
Politologo del Bard College di New York, editorialista del Wall Street Journal e autore di una delle più esaustive storie della politica estera americana, “Il Serpente e la colomba”, Mead incontra Repubblica al termine di un dibattito intitolato “Trump in action”, organizzato dall’Aspen Institute a Roma e presieduto da Giulio Tremonti appena riconfermato alla guida dell’organizzazione fino al 2022.
Partendo dall’idea di Soft Power, elaborata da Joseph Nye, nei suoi saggi lei ha analizzato altre forme di potere usate dai presidenti americani. Come definirebbe quello di Trump?
«Pragmatico. Al contrario di Barack Obama, che credeva nell’idea di soft power, Trump non crede nel potere delle ideologie. È un realista: un pragmatico, appunto. Per lui il potere è economico e militare. Non si lascia influenzare dalle ideologie, non crede nella necessità di esportare la democrazia. Ignora la questione dei valori comuni e pensa soltanto ai vantaggi per gli Stati Uniti».
È per questo che, come scriveva giorni fa il New York Times, Trump litiga con gli amici e fa pace con i nemici?
«Per lui istituzioni come la Nato o i G7 appartengono al passato: hanno perso funzione. Se i russi si comportano verso l’America in un modo che a lui piace, non si preoccupa che Putin non sia un fervente democratico. Anzi: pensa che fare politica estera nei limiti di certi valori renda le cose inutilmente complicate. E non pensa nemmeno che America ed Europa siano legate dai comuni valori democratici. Per lui l’Europa è poco interessante: ritiene anzi che gli europei abbiano una lunga lista di richieste ma poco da offrire in cambio».
A Singapore un incontro definito storico. Lei come lo giudica?
«Sono quasi certo che Kim non ha nessuna intenzione di mollare il suo arsenale atomico: e a meno di scatenare una guerra non ci sarà modo di costringerlo. Parlare di denuclearizzazione è diverso dal farlo realmente. La realtà e che gli Stati Uniti non hanno modo di forzare la situazione né vogliono vedere il bilanciamento strategico dell’Asia capovolto. Singapore è un bel packaging diplomatico per una situazione di stallo. Trump ha bisogno di stringere un accordo che allontani il problema Kim facendo credere di averlo risolto».
A questo punto vede possibile l’apertura, a sorpresa, di un dialogo anche con l’Iran?
«Sono certo che Trump è pronto a incontrare gli ayatollah. Non sto dicendo che è anche pronto a fare concessioni: ma incontrarli gli permetterebbe di capire meglio che tipo di carte giocare. Lui si mostra pronto ad andare alla guerra: vuole essere percepito come uomo forte. Ma poi presenta anche delle proposte allettanti. All’avversario propone lo scenario migliore e peggiore: sperando che l’altro risponda, e negozi all’interno di quei margini. In questo il suo stile è davvero poco convenzionale. Sì, è l’arte di fare affari».