Il Messaggero, 15 giugno 2018
Le buone storie si riassumono in tre frasi
Duecentocinquanta milioni di copie vendute in tutto il mondo. E, nella classifica dei primi dieci big, un ottimo piazzamento, tra Paulo Coelho e Danielle Steel. E ancora (Jeffrey Archer ne è fierissimo) il suo Caino e Abele all’undicesimo posto tra quelli più venduti in ogni tempo. Un po’ più sopra, c’è l’amato Dickens che lui considera «il più grande narratore mai vissuto da cui ho imparato tutto, proprio tutto», insieme a Dumas che «è davvero magistrale nel raccontare amore, avventura, l’ingarbugliarsi e lo sciogliersi della vicenda». E che cosa accomuna gli autori del Circolo Pickiwick, I tre moschettieri e magari Caino e Abele? «Non c’entra certo il marketing o l’autopromozione», in cui Archer non è comunque secondo a nessuno. Il segreto è altrove, semplice e inafferrabile: «Racconti una storia e subito al lettore viene voglia di voltare pagina». Elementare: «La narrazione è un dono che viene da Dio, non ti appartiene. Puoi diventare uno scrittore migliore di quello che eri, con l’esperienza, ma non un narratore migliore. Hai avuto un regalo incommensurabile ed io mi reputo fortunato». Anche perché le storie, quelle che «avvincono commuovono, turbano», hanno un segno distintivo, «possono essere riassunte in tre frasi», miniaturizzate in una sequela assai indicativa. Giusto per fare un esempio, guarda caso sempre Caino e Abele.
LA SINTESILa storia è basata sul rapporto tra un brillante e ricco bostoniano e un polacco di umili origini con alle spalle un passato di stenti. Archer è fiero della sua formula sintetica in cui si specchia la felicità della storia: «Vale per ogni libro che catturi l’attenzione del lettore, lo coinvolga fin dalle prime parole essenziali dove è contenuto il germe della storia, tutto il resto va a seguire». E la scandisce al suo intervistatore aprendogli le porte della piccola, grande rivelazione, un po’ (inevitabilmente) lapalissiana: «Tre frasi. Ci sono due uomini nati lo stesso giorno. Uno ha tutto, l’altro che non ha nulla. S’incontrano e l’incontro cambia completamente la loro vita».
Jeffrey Archer scrive romanzi dagli anni settanta, ha alle spalle una bibliografia che sta per approdare ai quaranta titoli quasi tutti best-seller mondiali e con grande silenzio da parte dell’establishment letterario che fatica molto a riconoscerlo, anzi in sostanza lo ignora. E una biografia doppia, che sfiora la leggenda mediatica con una vita anche opaca di bancarottiere, finito in carcere (nel 2001 è stato riconosciuto colpevole di spergiuro in una causa di diffamazione, incarcerato, rilasciato nel 2003, dopo aver scontato metà della pena) e una carriera politica che l’ha portato alla carica di vicepresidente del Partito Conservatore inglese e al Parlamento europeo.
IL FESTIVALArcher è in Italia per presentare il primo dei sette volumi della Saga dei Clifton (Solo il tempo lo dirà, HarperCollins). Un romanzone dove c’è un problematico eroe con una paternità incerta che si muove dalle banchine di porto di Bristol degli Anni Venti alle trafficate strade di New York City degli Anni Quaranta tra sorprese, dubbi, riconoscimenti, pericoli e riscatti. E in un conflitto molto serrato che, almeno in questo primo tempo della saga, sembra tra cattivi (per nascita, censo, disavventure psicologiche) e buoni senza macchia e senza paura che magari hanno una partenza svantaggiata, ma hanno tutto il tempo per recuperare.
Viene naturale chiedere al settantottenne scrittore perché diluire in un epos di ben sette tomi (il primo sfiora le cinquecento pagine) le peripezie di Harry ragazzo d’oro, un po’ Oliver Twist e un po’ Garrone del libro Cuore, cresciuto senza padre in lotta contro il Male di volta in volta rappresentato da figure e situazioni diverse, in questo caso Hugo Barrington ricco, potente e spietato come tutti i cattivi disegnati nei feuilleton. E Archer ha una spiegazione per così dire fisiologica ed esistenziale. «Quando iniziai sette anni fa, volevo fare qualcosa che m’impegnasse senza sosta, per alzarmi presto la mattina, per non passare da una vacanza a un’altra. Un impegno e una sfida anche perché raccontare a puntate significa creare ogni volta una curiosità, uno spazio ancora aperto e percorribile, magari anche un po’ di suspense per approdare ancora più curiosi al prossimo libro».
A leggere Solo il tempo lo dirà si colgono analogie tra la giovinezza di Harry e quella di Arscher, il primo Arscher, ancora non macchiato dalle colpe che gli hanno creato tanti problemi e che ora gli fanno dire che «colpevole è la parola più terribile che qualcuno mi abbia rivolto». Entrambi sono orfani, entrambi dotati di un grande talento che li porta ad affrontare con molta determinazione e fantasia il proprio futuro. È proprio così, c’è l’impronta della sua esperienza in quella del ragazzo del primo Novecento a cui è stato detto che il padre era stato ucciso in guerra per nascondere una verità diversa?
LA VITAArcher lo conferma: «La vita è il primo serbatoio per ogni storia». E aggiunge: «Sono in grado di scrivere tutti i miei ricordi di bambino, i miei giorni universitari, i miei primi lavori, la mia vita politica e anche quella di scrittore perché Henry lo scoprirete prossimamente – è anche scrittore». E ricorda il consiglio che dà sempre ai giovani: «Scrivi di quello che sai, il lettore sa di cosa stai parlando. Anche Dickens faceva così». E conclude dicendo che nei suoi libri è finita, ben camuffata e ritoccata, anche la sua più grande delusione, «non essere selezionato nel mezzofondo per le Olimpiadi del 1964, ma non ero abbastanza bravo, lo riconosco». E anche il suo sogno segreto, «correre il miglio in otto minuti».