Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2018
I debiti del mondo
La Federal Reserve ha alzato i tassi Usa per la seconda volta nel 2018, ipotizzando altre due strette entro fine anno. La Bce ha annunciato la fine del quantitative easing. La Bank of England ad agosto potrebbe (anche se qualcuno dubita) alzare a sua volta i tassi. Come la Banca del Canada. Comunque si giri la frittata, comunque si vogliano interpretare le calibrate parole dei banchieri centrali, una cosa è certa: l’era del denaro facile, avviata un decennio fa dopo il crack di Lehman Brothers, sta per finire. Presto o tardi il mondo dovrà rispondere a una domanda che in tanti si sono posti in questi anni: è sostenibile, in un contesto di tassi in aumento e di liquidità in calo, un debito globale che a fine 2017 ha raggiunto i 237mila miliardi di dollari ed è cresciuto più velocemente del Pil dal 2007? Sul mercato molti economisti mostrano una certa tranquillità, dato che oggi il sistema è meno squilibrato di un decennio fa. Ma i rischi sono tanti. Lo stesso Fmi li ha più volte sottolineati.
Super-debito in azienda
A preoccupare sono innanzitutto le aziende. Stima S&P che a livello globale il loro debito sia aumentato dal 2007, arrivando al 96% del Pil. Non solo: le imprese «altamente indebitate» – quelle dunque a rischio – nel mondo sono oggi il 37% del totale, 5 punti in più del 2007. È vero che gli utili sono tonici e i default bassi, ma questi numeri indicano una certa vulnerabilità. La novità dell’ultimo decennio è che, a causa delle regole più stringenti, le banche tradizionali non hanno accompagnato questa espansione creditizia. Anzi, i tradizionali istituti di credito si sono tirati indietro (soprattutto in Europa). A erogare una buona fetta di questi crediti è stato invece il settore finanziario, comprando tonnellate di obbligazioni. Negli Usa (dove il debito delle imprese è aumentato di 4mila miliardi dal 2007) i fondi d’investimento detengono ormai il 30% del mercato dei bond aziendali, contro poco più del 15% del 2008. E lo stesso fenomeno è accaduto in Europa, dove i fondi detengono il 20% del mercato dei corporate bond contro il 5% del 2008.
La ritirata delle banche ha lasciato insomma spazio a quello che in gergo si chiama «shadow banking». Cioè al sistema bancario “ombra”: investitori che, in vario modo, hanno prestato soldi alle imprese al posto delle banche. Nel mondo si tratta di un fenomeno che vale – secondo l’Fsb – 45mila miliardi di dollari. I problemi sono però almeno tre. Da un lato il sistema bancario «ombra» è meno regolamentato di quello bancario. Dunque più rischioso. Il secondo problema è che questi investitori, annichiliti da anni di tassi a zero, per trovare rendimenti appetibili hanno comprato sempre più bond di bassa affidabilità. Così le imprese poco affidabili hanno emesso tonnellate di obbligazioni. Morale: secondo i dati Ocse, a livello globale le obbligazioni “spazzatura” erano il 20% del totale emissioni nel 2007 e sono arrivate al 40% nel 2016. Il terzo problema è che questi investitori sono molto esposti alla fuga della clientela e la loro propensione al rischio è soggetta al «mark to market» (cioè ai valori di mercato). Il loro credito alle imprese è dunque molto più volatile e incerto. Come del resto l’intero mercato obbligazionario: lo testimonia il fatto che in Europa in queste settimane di incertezza su Italia (prima) e Bce (poi) sono calate le emissioni di bond aziendali. La domanda è dunque lecita: che effetto avranno le future strette monetarie globali su questo mercato?
Ma il problema dello shadow banking è serio soprattutto in Cina, dove ha raggiunto dimensioni enormi: 7mila miliardi di dollari. Cioè il 15% del totale. Anche perché in Cina il debito totale è aumentato dai 6mila miliardi del 2007 ai 36mila miliardi attuali. E sono in gran parte debiti di aziende. La Cina ha le spalle larghe (con oltre 3mila miliardi di riserve) per far fronte a crisi, ma i debiti sono davvero elevati. E in parte denominati in dollari, cioè nella valuta che sta registrando i rialzi dei tassi.
Debiti delle famiglie
Le famiglie dei Paesi industrializzati negli ultimi anni hanno invece ridotto i debiti in percentuale al Pil. Lo testimoniano i dati IIF. Anche una recente analisi dell’agenzia di rating Dbrs afferma che – in generale – i bilanci delle famiglie nei Paesi occidentali sono più solidi che nel 2007. Questo lascia ben sperare. Ma questo non significa che, in certe aree del mondo, le famiglie non siano vulnerabili al rialzo dei tassi. Dbrs individua alcuni Paesi (come Australia, Canada, Danimarca, Olanda, Norvegia, Svezia e Svizzera) dove le famiglie hanno un debito superiore al 150% del reddito disponibile. Dunque sono vulnerabili al rialzo dei tassi e al calo dei prezzi delle case. Il problema è che in alcuni di questi Paesi, come il Canada, le banche centrali stanno effettivamente aumentando i tassi d’interesse.
Secondo Dbrs gli Stati Uniti sono in zona “gialla”, non “rossa”, dato che le famiglie hanno un debito inferiore al 150% del reddito. Se si guardano però questi numeri sotto un’altra prospettiva, le cose cambiano. Innanzitutto – come segnalato in un recente convegno da Maurizio Novelli del fondo Lemanik – oggi il 27% dei consumatori americani è considerato «subprime» (cioè poco affidabile). In alcuni settori i prestiti di questa categoria sono addirittura sui massimi storici. Per esempio nel settore dei finanziamenti per l’acquisto di automobili: oggi – secondo i dati Sifma – è «subprime» oltre il 20% del totale, mentre nel 2007 la percentuale era al 18% circa. Oggi sono «subprime» 73 milioni di carte di credito negli Usa, appena sotto i 75 milioni del 2007. Dunque i rischi, anche qui, ci sono.
Calma e incertezza
Torniamo dunque alla domanda iniziale: il mondo è preparato per affrontare la ritirata degli stimoli monetari e l’aumento dei tassi in molti paesi occidentali? «Nella misura in cui si verificherà la stretta direi che non ci dovrebbero essere problemi – osserva Luca Mezzomo, economista di Intesa Sanpaolo -. Negli Usa se anche i tassi Fed salissero al 3% resterebbero neutrali rispetto all’inflazione. È difficile dunque che con tassi reali così bassi ci possa essere stress». Ancora meno in Europa, dove i tassi Bce sono ancora a zero. Ma c’è anche chi, come Maurizio Novelli, global strategist di Lemanik, è meno ottimista: «Il credito è pro-ciclico perché dipende dalla propensione al rischio dell’intermediario che lo eroga», osserva. Basta dunque che il vento cambi sui mercati, anche a causa della ritirata delle banche centrali, che il credito potrebbe contrarsi. Almeno per le aziende. Difficile prevederlo. Ma una cosa è certa: le banche centrali stanno entrando – ancora una volta – in un terreno «inesplorato».