Corriere della Sera, 15 giugno 2018
Stalin fece il gioco degli Usa. Roosevelt voleva indebolire l’Inghiltera
Ho qualche dubbio sulla utilità della geopolitica per lo studio delle relazioni internazionali. Concepita nelle brume dell’Europa del Nord da un piccola corte di studiosi inglesi, svedesi e tedeschi con il contributo di un ammiraglio americano, mi è sempre sembrata una pseudo-scienza, frutto di un’epoca, verso la fine dell’Ottocento, in cui il positivismo si era illuso di potere spiegare razionalmente tutte le attività umane. Nella affermazione di Holford Mackinder secondo cui «il mondo sarà governato da chi ne possiede il cuore» (the Heartland, una grande massa terrestre che corrisponde alla Russia e ai Paesi che la circondano) vedo soprattutto una sorta di mitologia vichinga e il desiderio di fornire argomenti agli Stati che hanno ambizioni imperiali. Nel libro di Manlio Graziano (L’isola al centro del mondo. Una geopolitica degli Stati Uniti), apparso ora presso il Mulino, la parola, quindi, non è fuori luogo.
Nella storia americana, come in quella di altri Stati che hanno progressivamente esteso i loro confini e la loro influenza, le classi dirigenti si giustificano con una combinazione di nobili intenti, indispensabili crociate morali e freddi calcoli geopolitici. Sono più rari, tuttavia, i casi in cui la fame di potere e di conquista invoca addirittura la volontà divina. Il presidente James Monroe, autore di una dottrina che intimava alle potenze europee di astenersi da qualsiasi coinvolgimento nella politica delle Americhe, fondava questa pretesa sulla convinzione che il continente fosse stato assegnato agli Stati Uniti dalla Divina Provvidenza. Mentre gli Stati europei, dopo la guerra dei Trent’anni, avevano cercato di scrivere con la pace di Westfalia un codice delle relazioni internazionali, l’America ha spesso trattato i suoi vicini meridionali come altrettanti potenziali satelliti. Ha conquistato Cuba per cacciare la Spagna e la Gran Bretagna dal continente americano. Ha criticato duramente gli imperi coloniali europei, ma non ha esitato a impadronirsi delle Filippine quando ha deciso di estendere la sua influenza al Pacifico. È stata trattenuta in alcune circostanze da una sorta di altero egoismo che fu definito «isolazionismo», ma ogni qualvolta messo piede in un nuovo Paese, ha cercato di restarvi con una presenza militare.
Graziano evoca questo spregiudicato realismo per spiegare alcune pagine controverse della politica internazionale americana. La resa senza condizioni, decisa nell’ultima fase della Seconda guerra mondiale, ebbe l’effetto di prolungare il conflitto sino al totale collasso della Germania e permise all’Armata rossa d’imporre il regime sovietico nell’Europa centro-orientale. Fu il risultato imprevisto di un errore strategico? Secondo Graziano fu il mezzo di cui Franklin D. Roosevelt si servì per ridimensionare il ruolo che la Gran Bretagna avrebbe avuto nella politica internazionale dopo la guerra. In altre circostanze i suoi successori (Harry Truman e Dwight Eisenhower) adottarono gli stessi criteri. Eisenhower, in particolare, non dette alla Francia gli aiuti che le avrebbero permesso di evitare la sconfitta di Dien Bien Phu, in Vietnam, e due anni dopo, nel 1956, costrinse la Gran Bretagna a ritirarsi dal Canale di Suez: una condanna a morte per un impero coloniale che dipendeva pressoché interamente dalla libera disponibilità del Canale. Gli Stati Uniti furono certamente favorevoli a una sorta di integrazione europea nella fase in cui gli aiuti del Piano Marshall sarebbero stati tanto più efficaci quanto più ripartiti con una visione d’insieme della economia europea. Ma hanno sempre visto nella Unione Europea una potenziale minaccia alla loro egemonia.
Anche la nascita della Alleanza atlantica, nel 1949, si presta a letture meno convenzionali di quella corrente. Con la firma del Patto atlantico, la creazione di una organizzazione militare e la sua estensione, dopo il crollo dell’Urss, ai suoi satelliti, l’America si è installata militarmente nel territorio dei suoi alleati e usa l’alleanza per condizionare i loro rapporti con la Russia.
Alla fine del libro il lettore si chiederà quali effetti l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca avrà sulla politica estera americana. Il nuovo presidente ha almeno due caratteri che hanno distinto gli Stati Uniti sin dalla loro nascita: l’eccezionalismo e l’unilateralismo. Ma è alla guida di un Paese che, secondo Graziano, è in una fase di «relativo declino». L’America continua a crescere, ma «la forza dei suoi rivali e competitori cresce a ritmi più sostenuti». Alla fine della Seconda guerra mondiale «gli Stati Uniti rappresentavano da soli circa il 50% del prodotto interno lordo mondiale», mentre nel 2014 la percentuale era scesa a circa il 22%. Come ricorda lo storico Paul Kennedy, «quando un Paese si indebolisce sul piano economico e produttivo, prima o poi si indebolirà anche sul piano politico internazionale».